Introduzione

"Come scrittori di romanzi non siamo capiti".
Introduzione di Ugo Gugiatti a "L'uomo delle taverne", romanzo del Pinchet

mercoledì 12 luglio 2017

WILLIE NILE - POSITIVELY BOB - WILLIE NILE SINGS BOB DYLAN
ANNO 2017


Credo che Willie Nile abbia fatto il più grande, bello, corale, positivo omaggio a Bob Dylan che sia mai uscito nella storia della nostra musica. Questo disco la dice davvero lunga sulle qualità del rocker di Buffalo, che a 69 anni è più giovane che mai, calca i palchi di tutto il mondo e sforna la media di un disco ogni biennio sempre di qualità eccelsa (l'ultimo episodio è stato World War Willie dell'anno scorso). La grinta rock e folk di Willie applicata ai pezzi storici, alcuni addirittura epici, di Dylan, li fa diventare davvero potabili, dissetanti e godibili. Dalla tambureggiante The Times They Are A-Changin' iniziale a Blowin' in the Wind, canzoni sentite in ogni salsa, fino alla immortale I Want You - per citare le più note al grande pubblico - il respiro è più ampio, il taglio più melodico e fresco. E non parliamo del lavoro enorme fatto sugli altri brani, tanto è vero che You Ain't Goin' Nowhere ne esce come uno dei pezzi più belli, felici ed estivi dell'album, Subterranean Homesick Blues risponde alla chiamata delle radici e del cotone, ma con un ritmo ballabile. Rainy Day Woman #12 & 35 è, a mio modesto avviso, il vero capolavoro del disco, accompagnata anche da un video di straordinaria leggerezza e semplicità, in cui Willie e gli amici del gruppo si ubriacano al banco di un bar newyorkese danzando felici - o disperati, a seconda dei punti di vista - ma rivendicando il sacrosanto diritto alla giovinezza. A Hard Rain's A-Gonna Fall è vibrante, Love Minus Zero/No limit epica nella sua melodia country, il valzer di Every Grain of Sand addirittura immortale; tutte nel loro romanticismo sublimano all'estremo le capacità stilistiche dello zio Bob, rendendogli un omaggio addirittura insperato. La finale Abandoned Love non si può nemmeno discutere tanto è perfetta. Nile è accompagnato da una band in cui figura anche l'altro grande rocker e amico James Maddock alla chitarra e ai cori, Matt Hogan alla chitarra, Johnny Pisano al basso, Andy Burton al piano, Aaron Comess alla batteria, Frankie Lee al tamburino e Leslie Mendelson alle voci. Le fotografie sono della nostra Cristina Arrigoni. L'album è prodotto dal bravissimo Nile insieme a Stewart Lerman e io sono certo che rimarrà nella storia del rock come uno dei più grandi omaggi a Dylan mai realizzati. Godetene a tutto volume per tutta l'estate ed oltre.

lunedì 15 maggio 2017

GANG - CALIBRO 77


Non potevano che essere i Gang, al secolo Marino e Sandro Severini, con la loro storia di rettitudine morale, con la loro coerenza e con il loro spessore ai confini dell'epico, a compiere un viaggio nel cantautorato politico e di impegno sociale degli anni '70, rivisitando a quarant'anni di distanza dei brani che hanno fatto la storia della canzone di lotta e protesta di questo Paese. “Calibro 77” è il frutto di un lavoro di ricerca attenta e rispettosa. Gli autori scelti sono parte della storia artistica italiana, i brani, anche grazie alla confermata collaborazione con il bravo produttore e cantautore statunitense Jono Manson, acquisiscono tutti quel sapore folk rock che era già presente nel meraviglioso “Sangue e Cenere”. Si parte forte con “Sulla strada” di Finardi e con la struggente “Io ti racconto” di Lolli e si approda a una delle canzoni più oscure e meravigliose del Principe De Gregori, “Cercando un altro Egitto”, che con l'aiuto dei fiati diventa una sorta di gioia collettiva, a dispetto di un testo a dir poco drammatico. Si torna sulle barricate con “Questa casa non la mollerò” di Gianco, per non parlare della “Canzone del maggio” di Faber, proposta in una versione che sembra addirittura migliore dell'originale, con un rispetto e un'interpretazione da parte di Marino che certamente avrebbero commosso l'autore. La chitarristica “Sebastiano” e l'acustica “Uguaglianza” di Della Mea e Pietrangeli introducono una delle canzoni più belle di Bennato, “Venderò”, manifesto terribilmente vero di quello che è il mondo del mercato nel quale siamo tutti irrimediabilmente e sempre più schiavi. “Un altro giorno è andato” di Guccini, rallentata all'estremo, diventa poetica come mai, mentre “Ma non è una malattia” di Manfredi è una vera festa musicale swing, potente e colorata come solo i Gang potevano renderla. Un capitolo a parte merita la canzone finale, “I reduci” di Gaber. Capolavoro assoluto. La perla più bella del disco. Qui Marino fa addirittura un lavoro di interpretazione e di cadenza che ricorda proprio il Signor G, commuovendo sia per l'argomento che per l'inflessione vocale. Nel complesso è certamente il disco italiano più bello, profondo, ricercato e studiato uscito in questo anno solare. Ma anche oltre. C'era da aspettarselo, ormai la premiata ditta Fratelli Severini e Manson è un marchio di fabbrica che garantisce qualità eccelsa e ritorno alle radici folk che fanno brillare della luce del New Mexico anche i testi immortali del cantautorato italico. Speriamo che questa collaborazione duri molti altri dischi ancora.

giovedì 16 febbraio 2017

 BORN TO RUN - Autobiografia di Bruce Springsteen

Con tempi lenti, ho appena terminato la biografia del Nostro, che mi ha suscitato momenti di piacevole conferma ma anche alcuni punti interrogativi. Il libro è bello, scritto con sincerità totale, ironia, poesia, strutturato come la scaletta di un suo concerto, e certifica le doti che tutti noi che lo seguiamo da qualche decennio abbiamo sempre conosciuto in lui. Chiarisce anche tante cose che già si sapevano, come il non aver mai fatto uso di droghe o la fondamentale riluttanza di fondo anche nel trattare il rapporto col denaro, ma è certamente piacevole leggerle raccontate in prima persona. Bruce dimostra di saperci fare come autore - anche se suppongo sia stato supportato da qualche scrittore - e questa è una piacevole e ulteriore conferma della sua unicità artistica.
Al netto di queste cose certe porrei però a lui e a tutti voi che avete letto il librone alcune domande. Bruce dedica oltre la metà delle pagine all'infanzia ed alla prima fase, quella dei capolavori, paradossalmente quella di cui si sapeva di più, perchè è sempre stata terreno fertile e di conquista, già ampiamente e benissimo narrata dal biografo Dave Marsh nelle sue mirabolanti opere, quelle che tenevamo - insieme al libro dei testi Arcana - sul comodino da adolescenti come se fossero la Bibbia. Parlo ovviamente dell'originale Born to Run e di Glory Days. Meno capitoli - la parte terza, Living Proof - sono invece dedicati alla fase matura e recente, diciamo dagli anni '90 in poi, quella che desta maggiore curiosità - almeno allo scrivente - e che è stata meno raccontata. Perchè non approfondire almeno alla pari anche questo periodo, il più aderente alla sua vita attuale, con tutti i lussi della rockstar mondiale ormai acquisiti?
Non solo. Uno dei momenti cruciali della carriera di Bruce è stato sicuramente quello dello scioglimento della Band e dei successivi due album del 1992, incisi e poi portati in tour con una miscellanea di musicisti sconosciuti. Su quel periodo Bruce avrebbe potuto dirci molto di più. Avrebbe potuto spiegare perchè scegliere di fare un tour rock senza la E Street Band suonando comunque i classici e soprattutto perchè Roy Bittan rimase incluso in quei progetti, sia sui dischi (addirittura, caso unico, collaborò in un paio di testi) che dal vivo. Perchè un solo membro della E Street si salvò dalla decisione di interrompere il rapporto? Ovvio noi la nostra idea ce la siamo fatta, ma sarebbe stato bello conoscere la sua.
Bruce racconta, ad esempio, gli stranoti fatti di American Skin del 2000, ma liquida in poche righe progetti importanti come Devils & Dust e addirittura quasi sorvola su Working on a Dream, album minore e glorioso proprietario della copertina più orrida della storia, che meriterebbe alcune delucidazioni. Stesso discorso per l'inutile High Hopes, anche se nel breve capitolo dedicato a questo album esce fuori un racconto interessante sulla delicata operazione alla schiena di cui poco si sapeva, sui limiti vocali, sulla paura di non fare abbastanza che sarebbe la base della durata dei concerti. E viene, con mia immensa gioia, citata una frase di Clint Eastwood. Bruce non ci racconta il motivo dell'insistenza nel perpetrare l'immagine e lo status di rockstar da stadio anche e soprattutto passati i 60, a fronte dei progetti solisti del decennio dai 40 ai 50, quando la E Street era giovane e in piena forma. Perchè fra i 57 e i 67 anni cinque tour targati E Street consecutivi, certamente mirabolanti, ma molto simili fra loro? Forse sono cose che interessano solo il sottoscritto, e in tal caso mi scuso. Ma mi sembrano argomenti più interessanti ed inediti che l'ennesima descrizione delle estenuanti registrazioni di Born to Run, di cui ormai sono a conoscenza anche i pinguini esquimesi.
Riguardo invece quello che nel libro c'è, ed in particolare entrando nel merito dei rapporti con le sue persone, appare lampante, ma non priva di scontri, la fratellanza di Bruce con Clarence e Steve, mentre gli altri membri della Band, in particolare Danny, sono trattati con maggiore distanza, anche con una punta di critica in certi momenti. Nel complesso comunque è ben rappresentato e confermato il rapporto famigliare della Band, mentre appaiono forse un po' stucchevoli le amorevoli descrizioni di Patti e dei figli. Sul padre arriva a dire cose realmente durissime fermandosi un centimetro prima di smentire un amore mai espresso del tutto. Qualcosa che sicuramente gli ha provocato degli scompensi e lo segna ancora oggi. L'adorazione per la mamma è invece chiara.
Un'altra cosa che mi è saltata agli occhi è un certo doppiopesismo. Mi spiego. Viene ben rappresentata la sacralità - che tutti condividiamo - del momento della sostituzione di Clarence con il nipote Jake, e il suo ritardo al primo appuntamento col Capo me lo ha reso definitivamente antipatico. Nel sottolineare l'importanza fondamentale del ruolo che il giovane andava a ricoprire pare però Bruce si sia scordato che, con Clarence ancor vivo e vegeto, aveva fatto eseguire l'assolo di Born to Run per tutto un tour a una non meglio identificata Crystal Taliefero... E la sostituzione di Max per diversi concerti del 2009 con il figlio 18enne? Quella viene trattata con una leggerezza che un po' mi ha stupito, soprattutto se raffrontata alla descrizione del maniacale e serissimo lavoro che porta a quei concerti leggendari.
Se per certi lati del suo carattere pare di leggere la biografia che tanti di noi scriverebbero di sé stessi (è addirittura tenero quando racconta della tremarella nel suonare Tumbling Dice in una saletta con gli Stones nonostante avesse passato i 60 e fosse una star mondiale da decenni), mi va invece di ammettere la mia totale ignoranza dicendo che occorrerebbe rivolgersi - se non fosse trapassato - al suo storico analista newyorkese (piacevole che lo citi e lo ringrazi) per capire certe pagine dedicate alle difficoltà nei rapporti con le persone e con il successo. In particolare appaiono limpidi come la nebbia di novembre in Val Padana i motivi di fondo della rottura con la prima moglie, seppur spiegati con un lodevole e sincero impegno. E pure i motivi della depressione rimangono nel limbo dell'ignoto, materia più che altro proprio per addetti ai lavori della psiche. Ma certo non si tratta di una malattia facilmente spiegabile, già è stato fin troppo onesto a parlare di quelle lacrime, di quel buco nero che a tratti sembra preludere perfino a un gesto estremo. Dio benedica il Klonopin!
Bello che abbia ammesso candidamente una sorta di egoismo nel voler entrare nella Hall of Fame solo col suo nome, senza quello della Band. Un'ammissione che è un atto di quella umiltà che ha sempre avuto, mista comunque all'ansia di raggiungere l'Olimpo delle star che tutto il libro testimonia. E bello il finale quasi mistico, con lui che rilegge il suo passato in quell'albero abbattuto, e recita il Padre Nostro.
Concludendo, una bellissima lettura, ricca di approfondimenti e descrizioni di vicende di decenni prima al limite dell'incredibile. Come diavolo ha potuto ricordare tutto? Una lettura che però non risponde a molti interrogativi sui quali avrei voluto sapere di più. Peccato sia praticamente impossibile sperare in un capitolo due che approfondisca il non approfondito. Consoliamoci di aspettarlo nella sua versione naturale. Su disco. Perchè la sensazione è che abbia ancora molto da dire e che questo interminabile tour di un album di 37 anni fa gli abbia tolto parecchio tempo per fare qualcosa di nuovo.


lunedì 6 giugno 2016

BRUCE SPRINGSTEEN - DUBLINO, 27 e 29 maggio 2016

 

Quando vedi 80mila persone scatenarsi insieme su Sunny Day, Born in The Usa, The Rising e Dancing in the dark, intuisci, anche se non sei un genio, perchè Bruce abbia deciso di imbarcarsi nel quinto tour consecutivo praticamente uguale ai precedenti (li ricordo; Magic, Working on a Dream, Wrecking Ball e High Hopes), e questa volta senza nemmeno un disco nuovo da proporre. E' successo nei due show, straripanti come sempre, del Croke Park di Dublino gli scorsi 27 e 29 maggio. C'è poco da fare, i seguaci “duri e puri” che lo vorrebbero indirizzato verso qualcosa di più intimo, più aderente all'anagrafe e magari più di culto, devono arrendersi alla superstar internazionale, che a 66 anni ancora riempie gli stadi di tutto il mondo moltiplicando di volta in volta i suoi nuovi fan, sia pure occasionali. E in tempi di crisi in cui dischi - colpa anche della tecnologia - non ne vende più nessuno e in cui lo show dal vivo tiene in piedi l'intero business musicale, cosa si può sperare? E' uno dei pochissimi che ancora può fare incassare milioni a staff, organizzatori, città in cui suona e persino qualche spicciolo alla tribute band che si esibisce nella stamberga fuori dallo stadio, e allora come fermare una macchina così redditizia? In più si diverte ancora, non è diventato una macchietta come altri, rimane saldo e degno sul trono del rock e sfodera scalette sempre diverse e sempre più lunghe, con una E Street ancora in perfetta forma. Quindi non resta che arrendersi, e goderselo l'ennesima volta nella versione mainstream. Anche perchè, ammettiamolo, in uno stadio da 80mila persone i seguaci raffinati e colti, quelli che hanno il libretto dei testi Arcana consumato e sottolineato a casa, quelli che c'erano a Zurigo '81 nel vero tour di The River, quelli che erano abbonati a Follow that Dream di Ermanno Labianca e ne conservano le copie in una teca di castagno, o aspettavano l'uscita mensile del Mucchio Selvaggio come l'arrivo del messia, quelli che hanno fatto chilometri in tutto il mondo non solo per vedere lui, ma anche per vedere suoi amici a cui lui ha scritto mezza strofa, quelli che se non entrano nel Pit sentono le convulsioni per tutto lo show, quanti sono? Il 10%? Forse, se va bene. Il concerto nello stadio è fatto per gli altri, per quelli che manco sanno i titoli, per le belle ragazze in reggiseno a bandiera americana sulle spalle del pirla di turno, per i genitori che sognano di vedere il proprio pargolo cantare Sunny Day con lui, per quelli che vogliono poter dire di averlo visto una volta, per quelli che vanno serenamente sugli spalti e durante la prima ballata escono a pisciare perchè si annoiano. Ed è già tanto che lui li accontenti solo per una parte dello show, impreziosendolo comunque sempre di cose assolute. E anche se a noi stanno follemente sulle palle perchè siamo gelosi come coala in calore di lui, dobbiamo abbozzare.
Certo avevo facilmente pronosticato in gennaio che la proposta di tutto The River dal vivo sarebbe scomparsa all'ingresso negli stadi, e questo è avvenuto. Impossibile una sequenza di ballate del genere davanti ad almeno 70mila persone che l'unico Bruce di cui hanno minimamente sentito parlare è quello con la bandana in testa che canta l'orgoglio americano... Purtroppo però il fare tutto quell'album a celebrazione del cofanetto era l'unica mossa che poteva giustificare l'intero tour, come accaduto in Usa. In questo modo invece, appare semplicemente un tour greatest hits, in cui anche il progetto The Ties that Bind è già stato dimenticato. E di cui, lo dico a malincuore, si poteva fare a meno. A beneficio magari di qualcosa di nuovo.
Detto questo, appare ormai inutile commentare gli spettacoli, da Roulette a Back in your Arms a Lost in the Flood fino a Incident o Point Blank - per citarne solo alcune delle memorabili proposte nelle due serate irlandesi - è stato come sempre superbo. Addirittura ci si è chiesti cosa si sia portato in giro a fare tutti quei fiati e quei cori nei passaggi precedenti, dato che con la E Street al naturale non si sente minimamente la differenza. Certo c'è meno soul, ma alla fine non ce n'era molto nemmeno nel 2013. Resto scettico sul nipotino d'arte Jake, che non sarà mai Clarence nonostante il grande impegno, ma per il resto siamo sempre alla pura magia. E la voce del Boss sembra essere invulnerabile al passaggio degli anni.
Annoto, a margine, che i prezzi dei biglietti sono cresciuti a dismisura rispetto al 2013. E' ovvio che col moltiplicarsi delle richieste, soprattutto per il prato, crescono i prezzi. Che sono comunque eccessivi per un concerto, nonostante tutte le star internazionali ormai veleggino su quelle cifre, se non oltre. Forse però Bruce, paladino dei perdenti che annulla uno show in North Carolina per i sacrosanti diritti gay, potrebbe metterci una parola per arrivare ad un tetto massimo. Segnalo che va allargandosi a macchia d'olio anche in Europa (ma all'Italia rimane il primato incontrastato, per San Siro dovrei andare a piazzare una tenda domani e mettermi in aspettativa dal lavoro) la follia delle code per accedere al Pit, con appelli e distribuzione numeri che ormai iniziano due o tre o quattro giorni prima del concerto. E' tutto frutto dell'isteria collettiva e della moltiplicazione dei fan ad ogni tornata. Se ogni fan si vuole portare nel Pit morosa, cugino, zio e nipote dentista del cugino di sua nonna... La cosa certa a mio avviso è che sarebbe più opportuno imitare Svizzera o Germania, dove il biglietto Pit te lo compri pagandolo di più, e il giorno del concerto ti puoi godere la città invece che stare a bivaccare intorno a uno stadio. Ma sono solo pensieri miei, ovviamente.
Tutte queste considerazioni però non possono discostarci dalla domanda successiva. Nonostante il tour sia solo all'inizio e l'uragano debba ancora abbattersi su Milano (facile prevedere i due concerti più lunghi ed epici di sempre); quale sarà il passo successivo? Perchè pur facendo pace con tutte le precedenti scusanti, adesso è ora che un artista dello spessore e del livello di Bruce Springsteen regali un'altra volta qualcosa di immortale. E non parlo necessariamente di un disco acustico con conseguente tour teatrale, cose che peraltro ha già avuto il coraggio di proporre in passato. Di strade ce ne sono tante e persino un disco rock scarno e asciutto suonato dalla sola E Street (senza nemmeno il violino di Soozie e i coretti di Patti) e portato solo nei palazzetti potrebbe essere una di quelle. Per non parlare di una formazione minore, del disco gospel di cui si dice da tempo o della possibilità soul che la performance vocale definitiva sfoderata su Back in your Arms al Croke Park mi ha caldamente suggerito... Chissà quale sarà la mossa dopo la fine del giro ad agosto in America. Perchè la cosa certa è che l'album ci sarà, forse già entro la fine dell'anno, e il tour successivo pure. E dopo cinque tour sostanzialmente uguali, è tempo di spiazzare tutti. A 67 anni è il momento di fare qualcosa che rimanga nella storia. Parlo ad esempio di quello che l'ultima volta fece 10 anni fa con il folk della Seeger Sessions Band. Con buona pace della tettona col reggiseno a stelle e strisce. Perchè adesso noi, che abbiamo consumato vagoni di All Stars per corrergli appresso, ce lo meritiamo.
Ci vediamo a San Siro.

lunedì 16 marzo 2015

La favola vera dei Gang - Sangue e cenere - Anno 2015



Dopo “Anime salve”, “Ovunque proteggi”. Dopo “Ovunque proteggi”, “Sangue e cenere”. Sto parlando di quelli che, a mio modesto parere, sono i dischi definitivi del cantautorato italiano degli ultimi vent’anni. Da De Andrè a Capossela fino al grande ritorno dei Gang. “Sangue e cenere” è l’approdo di Marino e Sandro Severini, il nuovo capitolo di una storia lunga ormai più di trent’anni (“Tribes’ Union” è del 1984), e arriva a 15 dall’ultimo lavoro di inediti, “Controverso”. Come dire, ci hanno riflettuto un bel po’ prima di buttarlo fuori, ma alla fine è venuto come doveva venire, ed è un disco immortale. Un disco realizzato col crowdfunding, fregandosene ‘una volta per sempre’ delle case discografiche e facendosi di fatto produrre dai fan che per una vita ne hanno apprezzato coerenza, onestà, appartenenza, lavoro duro e umiltà. Ho conosciuto Marino e Sandro una ventina di anni fa a Colere, bellissimo borgo sulle Alpi bergamasche, dove quasi ogni anno fin dai tempi della ‘trilogia italiana’, si sono esibiti in spettacoli taumaturgici anche per merito degli organizzatori, un manipolo di pazzi rocker montanari cresciuti con i piedi ben piantati nel bosco e la testa ben dispersa a Nashville. E così ogni 12 mesi, da allora, ci siamo ritrovati lì, all’ombra della Presolana, come fratelli che si rivedono anno dopo anno, e si raccontano quello che è successo, e crescono insieme. Intuii subito, nonostante avessi meno di vent’anni, che questi due signori marchigiani avevano qualcosa in più. Non erano solo due artisti coltissimi, ai quali Joe Strummer aveva messo in mano la chitarra e la sete di conoscenza aveva fatto divorare migliaia di libri. Erano anche e soprattutto due brave persone, due cantastorie, due instancabili lavoratori (inizialmente facevano i facchini per mantenere la passione e i viaggi musicali in ogni angolo d’Italia) che amano la gente che incontrano per la strada, la stanno ad ascoltare e se ne ricordano nomi, cognomi e soprannomi, vizi e virtù, in quella condivisione che per tutti loro, e tutti noi, è fonte di vita. E allora lasciano spazio sul loro palco ad artisti che apprezzano, o scrivono brani per il disco di un amico, o dedicano la canzone alla figlia appena nata di un operaio che li segue dagli inizi. Persino a me hanno donato la prefazione ad un breve racconto, persino a me hanno tenuto un posto sul loro proscenio. Sono i Gang, semplicemente, e non ce ne sono altri così, in Italia e forse anche fuori. In tutti questi anni è sempre stato per me ingiusto come un gruppo di uno spessore musicale, intellettuale e umano di questo tipo non abbia riscosso il successo che avrebbe meritato. Ma il successo in questo paesucolo chiamato Italia forse ha prezzi troppo alti per persone di tale coerenza e di questi valori, per artisti che hanno fatto dell’impegno civile una causa. Così alla lunga ho fatto pace con questa rabbia, e mi sono convinto che probabilmente non lo volevano nemmeno, probabilmente considerano tale quello che già hanno. E le loro beghe con discografici e affini, con chiunque volesse mettere il cappello sulle loro canzoni, nel tempo, lo hanno dimostrato. E’ rimasto un pubblico numeroso e fedele di gente che andrebbe a recuperarli in capo al mondo se avessero una gomma bucata, che farebbe qualsiasi cosa per loro perché li considera di famiglia. Un pubblico che alla fine, quest’anno, ha tramutato questo amore in una raccolta fondi che ha avuto un riscontro clamoroso - 1186 co-produttori - diventando di fatto la nuova vera casa discografica dei Gang. E’ un caso unico in Italia, almeno di queste dimensioni. E non è forse un successo questo? Non è forse questo che il buon Frank Russell Capra ci ha lasciato alla fine di “La vita è meravigliosa”? La favola vera dei Gang ha avuto, con questo progetto, il suo giusto compimento. Il coronamento ideale benedetto dall’angelo Clarence.
E ora veniamo al disco. Un rock classico sorretto dalla vibrante chitarra di Sandro per descrivere i nostri tempi, questa è “Sangue e cenere”, brano che apre il sipario sull’album nel modo più potente possibile, evocando “Socialdemocrazia”. Alla seconda traccia si approda subito dalle parti delle emozioni forti con “Non finisce qui”, una ballata che racconta dell’emigrazione verso il Nord Italia, alla Breda ‘ferro e fuoco’, dove oltre al lavoro e quindi la paga, si prende anche il cancro. Il tutto raccontato con gli occhi del figlio, una memoria struggente. Il sax che accompagna tutto il brano è meraviglioso. “Alle barricate”, dedicata alle barricate del 1922 a Parma contro Balbo, torna sulle strade combat rock dei primi Gang, con aggiunta di violini e fisarmoniche Irish. Il tema, come nella successiva danza “Ottavo chilometro” (titolo tratto dal libro del grande partigiano Wilfredo Caimmi, fonte di ispirazione di Marino) è quello della Resistenza e dell’antifascismo. Su “Marenostro” c’è davvero ben poco da dire. Una preghiera, un valzer commovente, che racconta l’odissea clandestina di chi traversa il mare su una barca per cercare speranza. E lo racconta con una grazia che solo la penna di Marino Severini oggi in Italia riesce a trasmettere in una sola canzone. E’ indubbiamente una deflagrazione di dolcezza, umanità, bellezza che terremota per sempre uno Stato corrotto, mafioso, antimeritocratico, gerontocratico, clientelare e imputridito nella sua stessa meschinità. “Perché Fausto e Iaio?” torna sulle strade del rock e rinverdisce la tragica vicenda di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, due diciottenni frequentanti il Leoncavallo, uccisi da estremisti di destra nel 1978. “Nino” (Gramsci) è un nuovo inno comunista, forse anacronistico, ma non per chi ha fatto di quella bandiera, rossa, una storia di vita, come Francesco Guccini, o come i fratelli Severini. Un pezzo capace di risvegliare le coscienze più sopite. “Gli angeli di Novi Sad” è un’opera orchestrale fatta canzone, una cosa che pochissimi avevano potuto permettersi. Si parla della guerra in Kosovo, “patto fondante della nuova Europa”, a detta di Marino. Vittima il popolo serbo. Una boccata d’ossigeno è rappresentata a questo punto dal soul “Più forte della morte è l’amore”, bellissima, colorata dai fiati e dedicata alla figura del pacifista Gabriele Moreno Locatelli, ucciso a Sarajevo nel 1993. “Nel mio giardino” è un gioioso rhythm and blues che alleggerisce i temi, diverte e raggruppa una lunga serie di bei ricordi. Il sipario cala come meglio non potrebbe, con la poesia devastante, soprattutto per chi ha figli, “Mia figlia ha le ali leggere”. Ed è il coronamento di un capolavoro assoluto. Si sente la mano dell’esperto rocker americano Jono Manson in fase di produzione artistica, un forte contributo della sezione fiati (c’è anche Clark Gayton al trombone, direttamente dalla nuova E Street Band), ed è evidente che i Gang avevano ancora delle grandi storie da raccontarci.
Non so che altro dire, se non che non vedo l’ora di riabbracciarli, a Colere, il 2 maggio. Per sederci ancora una volta intorno al fuoco e raccontarci com’è andata, come va, come potrebbe andare, quanti capelli in meno, cosa è successo al barista del bar dell’angolo e quanto costa, oggigiorno, la cinghia di trasmissione di una fottuta macchina.

sabato 1 febbraio 2014

Bruce Springsteen - High Hopes - Anno 2014

Questo disco è un minestrone di cover, ripescaggi e scarti, e l'unico filo logico che lo tiene insieme è la chitarra, spesso debordante e poco incline al sound E Street Band, di Tom Morello. Non c'è infatti una tematica preponderante (come in Wrecking Ball era la crisi), ogni brano racconta una storia a sé (bella o meno), e sembra a tutti gli effetti un album fatto uscire per sollazzo, per avere la scusa buona per rimanere in tour, piuttosto che un'operazione studiata, costruita meticolosamente, come era nel modus operandi di Bruce Springsteen fino a qualche anno fa. In aggiunta ci sono qua e là suoni elettronici, loop, intrugli tecnologici, sovrapposizioni vocali e una produzione al solito eccessiva. Tutto a far storcere il naso ai tradizionalisti come me, che lo vorrebbero finalmente scarno ed essenziale. Ma, bisogna dire il vero, anche a esaltare chi apprezza il tentativo di Springsteen di affacciarsi sulle tendenze sonore moderne e di non fossilizzarsi sul suo stesso mito. Ciò premesso, High Hopes, messo su e preso per quello che è, indipendentemente da tutta questa serie di pistolotti mentali per springsteeniani doc, risulta un bel disco rock. E ancora una volta Bruce Springsteen riesce a non deludere, smentendo aspettative spesso troppo catastrofiche. Non c'è infatti springsteeniano di vecchia data che possa in alcun modo criticare un rock'n'roll puramente Asbury Park come Frankie Fell in Loveun mirabolante Irish come This is Your Sword (un inno!), il valzer Hunter of Invisible Game, o una ballata struggente come The Wall, la cui tromba finale è la summa dell’intero lavoro. Se a queste aggiungiamo le cover, ben fatte e splendidamente cantate, della robusta Just Like Fire Would e della passionale Dream Baby Dream (Bruce è bravo anche a riempire le tasche vuote di artisti che non conosce manco il bottegaio che vive sotto casa loro...) e i potentissimi rifacimenti, apprezzabili nonostante un Morello straripante, di Joad e American Skin, ecco che l'album raggiunge casa, e supera già di gran lunga il 6 politico. Fra gli esperimenti la title track, che certo non meritava di dare il nome a un album (tanto più perché è una cover) ma che si lascia ascoltare e dal vivo assume un valore aggiunto. Poi Harry's Place, notturna ballad proveniente da The RisingDown in the Holewaitsiano tentativo a metà fra rumore I'm on Fire e soprattutto il samba-gospel-rock di Heaven's Wall, che lascia troppe perplessità. Personalmente, ciò che più rammarica di questa parte sperimentale del disco, è che senza strani effetti, pure queste canzoni sarebbero risultate molto più belle di quanto non appaiano. Infatti crescono a ogni ascolto, e il dato che Bruce dovrebbe capire senza lasciarsi più influenzare da produttori di tendenza o figlioli virgulti, è che l'elettronica non aggiunge loro niente, semmai toglie genuinità, che per lui è da sempre la dote numero uno. Però, nel complesso, High Hopes è tutto meno che un album da buttare, ci sono almeno due canzoni che rimarranno nella sua discografia indelebilmente, ci sono gli ultimi assoli di Clarence e Danny, c'è una E Street Band al massimo della potenza, più impegnata che in Wrecking Ball, e c'è un guru della chitarra che tutti i musicisti del globo considerano un venerabile maestro. Io non sono musicista e mi bastava Nils, ma questo è un altro discorso. Quindi, ancora una volta, e nonostante l'ennesima brutta copertina (Ma chi lo consiglia su grafica e foto? Sono così belle le immagini sfuocate?), Bruce non mi ha deluso. Però rimangono sul mio tavolo le problematiche espresse nella lettera precedente all'uscita del disco, quella in cui parlavo delle scelte che dovrà fare per il futuro della sua carriera. Questo disco a quelle domande non risponde. Questo disco non fa una scelta, questo disco prosegue un percorso mainstream intrapreso dopo le Seeger Sessions, precisamente nel 2007, con Magic. E mi piacerebbe capire quanto lungo questo percorso sarà ancora, all'alba delle 65 primavere. Altre vie, più nette e radicali, come già detto, potrebbero rivelare nuove, grandi sorprese. Ma non si può considerare una nuova via il fatto di aggiungere Morello alla E Street ammiccando a qualche suono più attuale. Questo lo considero un gioco, un'anomalia, come Bruce stesso ha dichiarato in fase di presentazione. Una nuova via, dopo 40 anni di carriera e alle soglie della terza età, sarebbero il folk, il blues, il gospel, la strada solcata con la Seeger Sessions, oppure un rock più asciutto, solo coi superstiti della E Street, oppure un ritorno solista. Per il momento sono felice di non aver dovuto scrivere questa recensione iniziando con l'incipit che mi ero preparato, incazzato come un bue, sulla base dell'annuncio di questo buon minestrone e dell'ascolto del solo singolo. Ve la lascio comunque, rallegrandomi che non sia andata così. Ma temendo pure che, di questo passo e senza decisioni nuove, un giorno potrebbe accadere, che vada così. Il rischio c’è…
"Il delirio senile di un artista il cui unico obiettivo rimasto sembra essere quello di continuare a sentirsi giovane e piacere alle masse. E non parlo solo di questo moderno rock di plastica che non gli appartiene, ma anche di muscoli, capelli tinti, copertine ammiccanti, stadi pieni di ragazzini. No Bruce, stavolta non passa".
Tranquilli, questo, per ora, non è ancora successo.

lunedì 16 dicembre 2013

Natale 2013, lettera a Bruce Springsteen

Sondrio, dicembre 2013

Caro Bruce, i soliti bene informati dicono in giro che io sia un innamorato geloso, un rigido individualista, un nostalgico del tempo che fu. E, nonostante questo, uno comunque pronto a lacrimare come un vitello al tuo primo “one, two…”. Inoltre si vocifera, e posso confermartelo di buon grado, che io non abbia nessun titolo per poter in qualche modo suggerire qualcosa a una personalità artistica del tuo spessore. Quindi, questa lettera non conta un cazzo.
Questa premessa era dovuta, a scanso delle critiche che mi pioveranno addosso da parte di tanti tuoi fan. Critiche delle quali, a ben pensarci, non mi importa nulla.
Bene, lunedì 25 novembre 2013 è stata annunciata l’uscita di High Hopes, il 18esimo tuo disco in studio. Abbiamo appreso che si tratta di un disco che contiene 3 cover (per la prima volta nella tua carriera, escluso il progetto unico su Pete Seeger, pubblichi in un tuo album di studio delle cover e lo intitoli col titolo di una di queste), 2 canzoni già edite in versioni nuove, 7 canzoni inedite che sono in gran parte out takes dei dischi degli ultimi dieci anni. In pratica, scarti.
Questo annuncio mi ha mosso molte considerazioni, che coltivavo da tempo, e ho pensato di esplicitarle tutte, finalmente, su un foglio di carta. L’unico metodo che mi appartiene.
Sono passati meno di due anni dal tuo convincente album Wrecking Ball, e pochissimi mesi dalla fine di un tour multimiliardario, durato quasi due anni, che ha riempito stadi enormi in tutto il mondo e che in Europa è tornato, a volte addirittura nelle stesse città, più volte nell’arco di nemmeno un anno. Questo tour è stato il terzo di fila con la E Street Band, dopo le dolorose scomparse di Danny e Clarence via via allargata, dal 2007, quindi dai tuoi 58 anni, fino ad oggi, il periodo in cui ne hai compiuti 64. Ebbene, io ti seguo da quasi 25 anni e ne ho viste tante. Sono fra gli estimatori della stoica prima fase della tua carriera, anche se per questioni anagrafiche non l’ho potuta vivere in diretta. Sono stato fra quelli che hanno accettato l’arrivo dei sintetizzatori nel suono di Born in the Usa e Tunnel of Love. Sono stato fra quelli che hanno voluto capire lo scioglimento, per un lunghissimo periodo di 10 anni, della E Street Band, in tempi in cui eravate tutti ancora giovani e in salute. Sono stato fra quelli che hanno cercato e trovato il buono che c’è in Human Touch e Lucky Town, finto di non sentire le campane della chiesa abbattere come fucilate mortali la poesia di Real World, e persino costruito delle motivazioni plausibili per la scelta della band di dilettanti che mi hai piazzato davanti agli occhi in quel periodo. Sono stato fra coloro che hanno seguito tanti concerti del tuo lungo tour acustico per il capolavoro Tom Joad. Sono stato fra i più entusiasti seguaci del Reunion Tour, del Rising Tour e del secondo tour acustico della tua carriera. Ho adorato le Seeger Sessions e amato da subito anche il ritorno rock di Magic, album criticato dai molti che sostenevano vi imitassi quel te stesso che prima loro avevano rimpianto... Mi sono battuto contro tutti nell’impresa titanica di scovare le cose migliori di Working on a Dream e mi sono ritrovato felice di vivere tutto il periodo trionfale di Wrecking Ball. Ho giustificato senza timori, attribuendole alla casa discografica e non certo a te, qualche operazione commerciale discutibile come 18 Tracks, American Land Edition, Essential, raccolte di ogni genere, fino al recente, poco edificante, Springsteen & I, dove più che altro mi pare venga posta all’attenzione del mondo un’isterica e spesso triste idolatria. Ho rispettato la tua scelta di tornare al rock muscolare e non mollarlo più nonostante l’avanzare dell’età, la tua decisione di proseguire con i raduni di massa, il tuo desiderio di mostrarti ancora giovane e fisicamente prestante (come evidenzia in modo plateale anche la copertina del disco che sta per arrivare) di fronte a platee sterminate in cui via via sono apparse nuove entusiaste generazioni.
Ti sono rimasto sempre fedele perché ti voglio un bene infinito, ti stimo come artista e come uomo, sei stato e sei una parte determinante della mia vita.
Ma la notizia di questo nuovo album, di questo tipo di nuovo album, con un nuovo tour del tutto simile agli ultimi tre già ampiamente annunciato, mi ha suscitato più di una domanda.
Nel 2014 compirai 65 anni e, nei tuoi piani, c’è una nuova conquista degli stadi di tutto il mondo, delle ragazze danzanti nelle prime file, dei bambini sulle spalle di fanatici genitori, delle frizzanti nonnine incartapecorite e delle sterminate schiere di ammiratori di ogni forgia che nella fase avanzata della tua carriera sei riuscito addirittura a moltiplicare, portando a termine un’operazione davvero fuori dal comune.
Questa scelta però lascia parecchi dubbi ai seguaci di vecchia data, e non sarei un tuo onesto “amico” se non te lo dicessi, arrivati a questo punto. Questo disco, che non giudico perché non lo conosco e sono già certo che dopo l’ascolto lo considererò positivamente, è comunque senza nessun dubbio un minestrone di cover di band semisconosciute, di cose già note, di cose che in passato avevi bocciato. Questo è un fatto oggettivo. Il tutto condito dalla presenza di un chitarrista rap metal di cui nessuno dei tuoi vecchi seguaci capisce né la necessità, né l’affinità con la tua musica. L’album appare come la scusa buona per poter tornare a un nuovo tour greatest hits a ripetere incassi stratosferici sulla ridondante melodia della milionesima Hungry Heart. Sensazione che avemmo già con il trascurabile progetto Working on a Dream.
La domanda che i tuoi “fratelli” più anziani, per i quali credo di essermi guadagnato almeno il diritto di parlare, si fanno, è se non sarebbe il caso di invertire la tendenza. Il mondo, con la tua poetica rock, lo hai conquistato fin dagli anni ’80, la E Street Band, dopo lo scioglimento, l’hai fatta rivivere e l’hai regalata a tutti (a volte nella stessa famiglia a figli, genitori e genitori dei genitori), l’olimpo della star internazionale ti appartiene ormai da tempo. Non sarebbe allora il caso, passati i 60 anni, di cercare vie più epiche per rendere la tua carriera immortale? Non sarebbe il caso di misurare le uscite discografiche, di imboccare strade musicali meno battute, più di culto? Non sarebbe più in linea con la tua età e con la tua gloriosa storia abbandonare gli stadi e cominciare a suonare in posti più raccolti, per la gente che ti segue con passione sincera e non in base all’orecchiabilità dell’ultimo singolo? Lo hai già fatto in passato, paradossalmente in età più verde, e non lo fai più ora che forse sarebbe più naturale farlo… Altri grandi artisti della tua generazione lo hanno fatto con ottimi riscontri. Molti, non certo tu, fra quelli che invece si sono ostinati nel perpetrare la strada della gloria passata sono diventati delle brutte copie di se stessi.
Ti faccio un esempio extra musicale che secondo il mio parere è sintomatico. Pensiamo a Clint Eastwood. La stragrande maggioranza dei suoi capolavori alla regia sono venuti dopo il compimento dei 60 anni di età. Nei 20 anni fra i 62 e gli 82 ha regalato pagine di storia del cinema, partendo con “Gli spietati”. E non lo ha mai fatto rincorrendo il successo del botteghino. Non ha mai rifatto Callaghan, anche se questo gli avrebbe garantito nuovi debordanti successi commerciali. Ma ha diretto film che rimarranno indelebilmente impressi nella memoria collettiva, come “Gran Torino”. E lo sta ancora facendo. La conferma di quel che affermo mi è venuta, con dati di incasso oggettivi, dalla recente lettura del libro “Clint Eastwood. Un ribelle americano” di Marc Eliot.
La mia domanda è: cosa potresti dare tu alla storia della musica folk, country, blues, swing, gospel ed ancora rock (seppur magari in versione più asciutta e meno pomposa), se nei prossimi vent’anni seguissi il suo esempio? Ho sempre visto delle affinità, anche se non politiche, nel modo di fare arte, in voi.
Le tue scelte molto popolari degli ultimi anni a cosa hanno portato? Ci hai mai pensato davvero? Al di là degli incassi, dei quali non credo che, dopo un certo tempo, tu ti sia mai interessato molto, e dei quali certamente hanno potuto godere le centinaia di persone che gravitano nel tuo staff e nel tuo mondo, al di là dell’esposizione mediatica, al di là dei momenti memorabili che ci regali e del divertimento che provi ancora a stare sul palco ogni sera coi tuoi amici - in modo superlativo - per più di tre ore, il risultato principale è stato quello di far conoscere te e la tua musica ai giovani. Sicuramente questo fatto può essere considerato positivamente. Ma sarebbe miope considerarlo solo positivamente.
Hai mai pensato a quanta gente che ti seguiva in passato stai oggi perdendo? Quelli che, senza Internet, senza voli low cost, senza telefonini, senza braccialetti, senza pit, prendevano le loro macchine scassate negli anni ’70 e ‘80 per raggiungerti in un unico concerto, dopo 10 ore di strada, perché per loro era l’evento di una vita, era una cosa attesa per anni, era la sola e rarissima occasione di porsi in contatto con i loro sogni. Quelli che saltavano su un treno dalla più sperduta casa di provincia per raggiungere la città dove, in uno scantinato maleodorante, proiettavano clandestinamente un video rubato del tour di Darkness. Quelli che spendevano buona parte del loro stipendio in bootleg. Quelli che facevano arrivare fanzine da ogni angolo del mondo perché era il solo modo di avere qualche timida notizia sul tuo attesissimo e segretissimo nuovo album. Quelli che parlavano di te agli amici con la venerazione che si riserva agli dei, e faticavano a comprare dischi di altra gente, perché gli sembrava di tradirti. Io queste persone le ho conosciute quando ero un neofita, mi sono ispirato a loro perché mi sono capito loro simile e le ho prese ad esempio di vita. Mi hanno indicato la via, ed è stata la via giusta. La tua via.
Beh, Bruce, negli stadi di oggi, molta di quella gente comincia a mancare. Certo, perché i tempi sono cambiati. Certo, perché sono invecchiati. Ma anche perché i tuoi nuovi fan, quelli che hai cresciuto con Radio Nowhere (per altro bellissima) - e speriamo resistano al primo album scarno ed essenziale - sono di matrice diversa, forse migliore, ma diversa. Sono figli di questi tempi. Organizzano file di giorni interi per essere sempre davanti a te. E loro, quei vecchietti di cui dicevo, che oggi lavorano tutta la settimana e magari hanno figli da mantenere, non possono perdere giornate per mettersi in coda agli ordini delle nuove leve. E alla fine, per vederti solo da distante, se ne stanno sul fondo, oppure rinunciano, sopraffatti dall’ondata dei nuovi fan e stanchi di non sentire più quella magia. Cominciano a mancare perché non si riconoscono nella nuova gente che hai attratto. Cominciano a mancare perché sperano in un disco sporco e minimalista, misantropo, incazzato, che non piaccia a tutti, che non venga messo in radio, che non faccia sorridere ebete la fanciulla in canotta sulle spalle del fidanzato.
Capisco che questo ragionamento vada contro ogni logica commerciale, ma all’età che hai brillantemente raggiunto, deve essere davvero ancora così importante per te, l’ambito commerciale?
Ora, Bruce, io ci sono sempre stato e ci sarò ancora, e in ogni caso il 15 gennaio - non ascolto certo i tuoi dischi prima dell’uscita ufficiale - sarò il primo a dire che, tutto sommato, hai piazzato un altro bel disco. E ti difenderò se qualcuno ti attaccherà, come ho sempre fatto. Però il mio invito, se mi posso permettere, è di prendere in considerazione anche questa faccia della medaglia. Hai ancora tanto tempo davanti e troppo talento per permetterti di non regalarci perle che potrebbero restare immortali. Perle da poter paragonare a Nebraska senza arrossire, aderenti alla tua attuale età, e in linea con quella vecchia promessa che fino ad ora hai sempre saputo mantenere. Loro, i vecchi seguaci, aspettano quello. Noi aspettiamo quello. Queste sono le nostre ‘grandi speranze’ riguardo te e la tua musica per questo 2014 e per il futuro.
Ma alla fine hanno ragione quei bene informati che dicono in giro che io sia solo un innamorato rabbioso e antiquato, che ti vorrebbe tutto per sé e per un èlite di privilegiati da lui stesso scelti dopo marziale selezione. Un estremista egoista e crudele che non ama le masse e non capisce la condivisione, e quindi questa lettera non conta proprio un cazzo. Mi spiace persino di avertela scritta, perché temo potrebbe in qualche modo ferire la tua sensibilità. E non potrei sopportarlo. E non voglio che la legga nessuno, perché queste cose devono restare fra noi. In pratica, dimenticala subito e buttala nel cesso.
Scusami, e buon Natale.