Introduzione

"Come scrittori di romanzi non siamo capiti".
Introduzione di Ugo Gugiatti a "L'uomo delle taverne", romanzo del Pinchet

lunedì 16 marzo 2015

La favola vera dei Gang - Sangue e cenere - Anno 2015



Dopo “Anime salve”, “Ovunque proteggi”. Dopo “Ovunque proteggi”, “Sangue e cenere”. Sto parlando di quelli che, a mio modesto parere, sono i dischi definitivi del cantautorato italiano degli ultimi vent’anni. Da De Andrè a Capossela fino al grande ritorno dei Gang. “Sangue e cenere” è l’approdo di Marino e Sandro Severini, il nuovo capitolo di una storia lunga ormai più di trent’anni (“Tribes’ Union” è del 1984), e arriva a 15 dall’ultimo lavoro di inediti, “Controverso”. Come dire, ci hanno riflettuto un bel po’ prima di buttarlo fuori, ma alla fine è venuto come doveva venire, ed è un disco immortale. Un disco realizzato col crowdfunding, fregandosene ‘una volta per sempre’ delle case discografiche e facendosi di fatto produrre dai fan che per una vita ne hanno apprezzato coerenza, onestà, appartenenza, lavoro duro e umiltà. Ho conosciuto Marino e Sandro una ventina di anni fa a Colere, bellissimo borgo sulle Alpi bergamasche, dove quasi ogni anno fin dai tempi della ‘trilogia italiana’, si sono esibiti in spettacoli taumaturgici anche per merito degli organizzatori, un manipolo di pazzi rocker montanari cresciuti con i piedi ben piantati nel bosco e la testa ben dispersa a Nashville. E così ogni 12 mesi, da allora, ci siamo ritrovati lì, all’ombra della Presolana, come fratelli che si rivedono anno dopo anno, e si raccontano quello che è successo, e crescono insieme. Intuii subito, nonostante avessi meno di vent’anni, che questi due signori marchigiani avevano qualcosa in più. Non erano solo due artisti coltissimi, ai quali Joe Strummer aveva messo in mano la chitarra e la sete di conoscenza aveva fatto divorare migliaia di libri. Erano anche e soprattutto due brave persone, due cantastorie, due instancabili lavoratori (inizialmente facevano i facchini per mantenere la passione e i viaggi musicali in ogni angolo d’Italia) che amano la gente che incontrano per la strada, la stanno ad ascoltare e se ne ricordano nomi, cognomi e soprannomi, vizi e virtù, in quella condivisione che per tutti loro, e tutti noi, è fonte di vita. E allora lasciano spazio sul loro palco ad artisti che apprezzano, o scrivono brani per il disco di un amico, o dedicano la canzone alla figlia appena nata di un operaio che li segue dagli inizi. Persino a me hanno donato la prefazione ad un breve racconto, persino a me hanno tenuto un posto sul loro proscenio. Sono i Gang, semplicemente, e non ce ne sono altri così, in Italia e forse anche fuori. In tutti questi anni è sempre stato per me ingiusto come un gruppo di uno spessore musicale, intellettuale e umano di questo tipo non abbia riscosso il successo che avrebbe meritato. Ma il successo in questo paesucolo chiamato Italia forse ha prezzi troppo alti per persone di tale coerenza e di questi valori, per artisti che hanno fatto dell’impegno civile una causa. Così alla lunga ho fatto pace con questa rabbia, e mi sono convinto che probabilmente non lo volevano nemmeno, probabilmente considerano tale quello che già hanno. E le loro beghe con discografici e affini, con chiunque volesse mettere il cappello sulle loro canzoni, nel tempo, lo hanno dimostrato. E’ rimasto un pubblico numeroso e fedele di gente che andrebbe a recuperarli in capo al mondo se avessero una gomma bucata, che farebbe qualsiasi cosa per loro perché li considera di famiglia. Un pubblico che alla fine, quest’anno, ha tramutato questo amore in una raccolta fondi che ha avuto un riscontro clamoroso - 1186 co-produttori - diventando di fatto la nuova vera casa discografica dei Gang. E’ un caso unico in Italia, almeno di queste dimensioni. E non è forse un successo questo? Non è forse questo che il buon Frank Russell Capra ci ha lasciato alla fine di “La vita è meravigliosa”? La favola vera dei Gang ha avuto, con questo progetto, il suo giusto compimento. Il coronamento ideale benedetto dall’angelo Clarence.
E ora veniamo al disco. Un rock classico sorretto dalla vibrante chitarra di Sandro per descrivere i nostri tempi, questa è “Sangue e cenere”, brano che apre il sipario sull’album nel modo più potente possibile, evocando “Socialdemocrazia”. Alla seconda traccia si approda subito dalle parti delle emozioni forti con “Non finisce qui”, una ballata che racconta dell’emigrazione verso il Nord Italia, alla Breda ‘ferro e fuoco’, dove oltre al lavoro e quindi la paga, si prende anche il cancro. Il tutto raccontato con gli occhi del figlio, una memoria struggente. Il sax che accompagna tutto il brano è meraviglioso. “Alle barricate”, dedicata alle barricate del 1922 a Parma contro Balbo, torna sulle strade combat rock dei primi Gang, con aggiunta di violini e fisarmoniche Irish. Il tema, come nella successiva danza “Ottavo chilometro” (titolo tratto dal libro del grande partigiano Wilfredo Caimmi, fonte di ispirazione di Marino) è quello della Resistenza e dell’antifascismo. Su “Marenostro” c’è davvero ben poco da dire. Una preghiera, un valzer commovente, che racconta l’odissea clandestina di chi traversa il mare su una barca per cercare speranza. E lo racconta con una grazia che solo la penna di Marino Severini oggi in Italia riesce a trasmettere in una sola canzone. E’ indubbiamente una deflagrazione di dolcezza, umanità, bellezza che terremota per sempre uno Stato corrotto, mafioso, antimeritocratico, gerontocratico, clientelare e imputridito nella sua stessa meschinità. “Perché Fausto e Iaio?” torna sulle strade del rock e rinverdisce la tragica vicenda di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, due diciottenni frequentanti il Leoncavallo, uccisi da estremisti di destra nel 1978. “Nino” (Gramsci) è un nuovo inno comunista, forse anacronistico, ma non per chi ha fatto di quella bandiera, rossa, una storia di vita, come Francesco Guccini, o come i fratelli Severini. Un pezzo capace di risvegliare le coscienze più sopite. “Gli angeli di Novi Sad” è un’opera orchestrale fatta canzone, una cosa che pochissimi avevano potuto permettersi. Si parla della guerra in Kosovo, “patto fondante della nuova Europa”, a detta di Marino. Vittima il popolo serbo. Una boccata d’ossigeno è rappresentata a questo punto dal soul “Più forte della morte è l’amore”, bellissima, colorata dai fiati e dedicata alla figura del pacifista Gabriele Moreno Locatelli, ucciso a Sarajevo nel 1993. “Nel mio giardino” è un gioioso rhythm and blues che alleggerisce i temi, diverte e raggruppa una lunga serie di bei ricordi. Il sipario cala come meglio non potrebbe, con la poesia devastante, soprattutto per chi ha figli, “Mia figlia ha le ali leggere”. Ed è il coronamento di un capolavoro assoluto. Si sente la mano dell’esperto rocker americano Jono Manson in fase di produzione artistica, un forte contributo della sezione fiati (c’è anche Clark Gayton al trombone, direttamente dalla nuova E Street Band), ed è evidente che i Gang avevano ancora delle grandi storie da raccontarci.
Non so che altro dire, se non che non vedo l’ora di riabbracciarli, a Colere, il 2 maggio. Per sederci ancora una volta intorno al fuoco e raccontarci com’è andata, come va, come potrebbe andare, quanti capelli in meno, cosa è successo al barista del bar dell’angolo e quanto costa, oggigiorno, la cinghia di trasmissione di una fottuta macchina.