Introduzione

"Come scrittori di romanzi non siamo capiti".
Introduzione di Ugo Gugiatti a "L'uomo delle taverne", romanzo del Pinchet

venerdì 16 marzo 2012

Bruce Springsteen - Wrecking Ball - Anno 2012

“Se avessi una pistola, scoverei quei bastardi e li farei fuori”. Bruce Springsteen è tornato. Da più di vent’anni sento, e leggo, e scrivo questa frase ad ogni album nuovo del celeberrimo rocker del New Jersey, ma stavolta questa frase vuol dire qualcosa in più. Perché “Wrecking Ball” è un album spettacolare, che unisce diverse influenze musicali - e proprio per questo decine di musicisti - in un unico grande e nuovo sound per Bruce, e che vanta delle liriche di una rabbia, una potenza e una forza espressiva che non si sentivano da tempo. Certamente il suo disco migliore degli anni 2000, forse addirittura fra i primi in assoluto, ma resta il fatto che è difficilmente paragonabile a tutti gli altri proprio perché profondamente unico. Non sono stato un detrattore assoluto del periodo di produzione di Brendan O’Brian - anche se i suoi arrangiamenti hanno di certo imprigionato l’ottimo rock contenuto in “The Rising” o “Magic”, per non parlare dell’appena sufficiente “Working on a Dream” - ma stavolta si cambia registro e si torna a sentire una voce rocciosa su suoni nitidi. Il singolo, “We Take Care of Our Own”, a fine gennaio, mi aveva lasciato l’amaro in bocca. Anzi mi aveva proprio fatto incazzare. Sembrava appunto di riprendere il filone rock più archi e coretti tipico del precedente produttore, la canzone non aggiungeva nulla alla già enorme storia di Bruce, non era coerente con la sua non più tenera età e pareva un nuovo successo di facile presa radiofonica. Solo il testo, volgendo lo sguardo alla povertà americana 2012, lasciava intravedere un po’ di luce. Nel complesso comunque Bruce non poteva permettersi di darci così poco dopo tre anni di silenzio e una perdita enorme come quella di Clarence Clemons. Così non mi sono fatto abbattere e l’ascolto attento di tutto l’album mi ha regalato quello che speravo. “Easy Money”, seconda traccia, è folk irlandese allo stato puro, con l’aggiunta dei cori a rendere il clima più festaiolo su un testo che è un calcio nel culo alla legge. L’atto criminale si sta per compiere e una Smith & Wesson calibro 38 è pronta a sparare. Sembra di essere tornati a “Nebraska”. “Shackled and Drawn” è su questo stesso filone, potente e ruvida, folk che si fonde col gospel, con la batteria di Matt Chamberlain che picchia talmente forte da sembrare una mazza contro la cassaforte della banca. Rende perfettamente l’immagine di rancore e disperazione dell’uomo comune e onesto di fronte alla crisi economica mondiale causata dal potere. “Jack of All Trades” è il primo colpo al cuore dell’album, una ballata per piano, tromba da antologia e assolo finale di Tom Morello che certamente diventerà un classico springsteeniano. “Death to My Hometown” è folk rock celtico, di una forza epica, una marcia che dal vivo farà saltare tutti. A pestare c’è Chamberlain, che giustifica ampiamente la chiamata del Boss, mentre il ritmo è incalzante nonostante la canzone racconti di desolazione, con “gli avvoltoi che si sono presi le nostre ossa”. Ed eccoci ad un altro snodo cruciale, “This Depression”, che anche grazie al secondo intervento chitarristico dell’ottimo Morello, trasmette esattamente le difficoltà e le paure di questo buio periodo, e dimostra ancora una volta come il Boss sappia leggere la realtà e tramutarla in versi. La title track la conoscevamo perché proposta alla fine dell’ultimo tour, è la metafora ideale che rappresenta tutto un album di dolore ma anche di voglia di riscatto. Dopo un attacco per chitarra e voce vira in un’esplosione di fiati, abbracciando il soul. “You’ve Got It” ricorda vagamente il periodo “Tunnel of Love”, la ruvida voce del Capo si riprende la scena e ci sono importanti innesti di pedal steel guitar. Su “Rocky Ground” occorre fare un discorso a parte. Si tratta di un pezzo gospel che sarebbe risultato il contraltare superbo di “My City of Ruins”, dieci anni dopo. Purtroppo - ma ammetto che per chi ha meno paraocchi del sottoscritto è una fortuna - non mancano i pochi secondi rap proposti dalla intensa voce della cantante Michelle Moore. Al netto di questo è una grande canzone, con evidenti riferimenti biblici nei versi, ma per i puristi della biografia sonora springsteeniana si tratta di un bell’azzardo. Il testo è da brividi: “Dove una volta avevi fede, adesso c’è solo dubbio”. Torniamo a casa con la arcinota “Land of Hope and Dreams”, versione studio, inserita per rendere omaggio a Clarence, che qui prestava uno dei suoi ultimi assoli. Rappresenta uno dei pochi barlumi di speranza dell’album. Arriviamo ad un altro tassello fondamentale col country puro di “We’re Alive”, che emerge dai solchi di un vinile e non a caso contiene un sentito omaggio della sezione di fiati alla “Ring of Fire” di Cash. Struggente, questa “Spoon River” di Bruce, parte acustica e poi esplode corale, se il suono è a metà strada fra “Tomorrow Never Knows” e “My Best Was Never Good Enough”, nelle parole ricorda l’intero album di De Andrè “Non al denaro, non all’amore né al cielo”. Quindi ecco i morti descriversi sotto terra. Sono i nostri cari o dei semplici sconosciuti, che ci dicono di andare avanti, perché loro sono vivi, sono con noi, pronti a combattere spalla a spalla, cuore a cuore. Immensa. Nella versione deluxe dell’album (la moda di fare queste doppie versioni è una cagata pazzesca), c’è anche la drammatica, introspettiva, tetra “Swallowed Up - In the Belly of the Whale”, che ci porta in un caposselliano ventre di balena, fra Waits e Cohen. Da sentire e assimilare con calma perché potrebbe essere il viatico del Bruce sessantenne, quello che ci riserva il futuro. Il disco si chiude sul sound gioioso in salsa Pogues di “American Land”, figlia del progetto Seeger Sessions che sicuramente ha influenzato tutto il lavoro. Una versione studio che è di nuovo folk rock puro e farebbe ballare anche il cadavere di un bancario pigro, come hanno dimostrato le centinaia di concerti degli ultimi 6 anni. Non c’è nulla da dire, Bruce è tornato. A 62 anni ci ha detto che è ancora lì, a dire la nostra, a interpretare il canarino nella miniera. A rappresentare il grigiore dei tempi e ad aiutarci a combatterlo. E’ integro, lucido, ricettivo e vivo più che mai. Cosa si può chiedere di più a una leggenda rock con 40 anni di carriera sulle spalle? Non c’è nella sua intera discografia un album simile a questo, è riuscito a fondere quasi tutte le sue influenze - rock, blues, gospel, country, soul, folk - e a ricavarne un disco che resisterà al tempo. Il progetto vede una partecipazione ridotta all’osso dei membri della E Street Band, probabilmente a testimonianza del fatto che il concetto iniziale non andasse in quella direzione. Forse la dilatazione dei tempi di realizzazione e la virata su un ritorno, nel prossimo tour, con i vecchi compagni, sono avvenute a seguito dell’improvvisa dipartita del Grande Uomo. Altrimenti ci sarebbe stato un turno di pausa per loro, e magari - finalmente - sarebbero stati aboliti gli stadi, luoghi da inutili raduni di massa dove il Boss è spesso portato a gigioneggiare. Oggi come oggi, i palazzetti e i teatri andrebbero benissimo, gli consentirebbero di improvvisare cose più particolari ed eliminare quelle più facili. Si tratterebbe di un ambiente in linea con l’anagrafe e con l’approdo soul che la sezione fiati porterà a questi concerti; sarebbe meglio sentire tutto il nuovo album e buona parte di “The Promise”, piuttosto che l’ennesima “Hungry Heart”. Comunque, se è questo il Bruce che ci riserva la fase matura, E Street o no, Dio ce lo conservi. Note a margine: nel retrocopertina e nel libretto ci sono due foto già uscite nel book del “Live in Hide Park”. Difficile pensare che non ce ne fossero di inedite… Infine, mi piacerebbe sapere se il nuovo produttore, Ron Aniello, è servito solamente ad aggiungere la batteria elettronica che fa goffa figura - fortunatamente sotto traccia - in parte di “Jack of All Trades” o in alcune fasi di “Land of Hope and Dreams”, o a suggerire il sottofondo sintetico di “Rocky Ground”. Perché se così fosse, allora sarebbe meglio per Bruce prodursi da solo senza andare più a cercare altri guru del mixer. Inezie, che però offuscano in minima parte la bellezza di un disco enorme.

mercoledì 14 marzo 2012

L'ultima intervista a Clarence Clemons - Estate 2010


L’UOMO PIU’ GRANDE CHE TU ABBIA MAI VISTO
Intervista esclusiva a Clarence Clemons

Clarence Big Man Clemons è l'enorme schiena su cui Bruce Springsteen si appoggia da 37 anni. Quella schiena è sempre lì, pronta a non farlo cadere per terra. Insieme rappresentano l’ultima leggenda vivente del rock’n’roll, la favola di un’amicizia eterna, una storia a lieto fine. Fin da prima della copertina di Born to Run il loro legame è stato saldo come una montagna, e li ha portati a calcare per quattro decenni i palcoscenici di tutto il mondo, vivendo insieme il passaggio dai bassifondi all'Olimpo. Con qualche pausa sì, ma in fondo sempre uniti. Non esistono altri esempi di questo genere nella storia della musica. Questa intervista, che gli ho fatto a inizio estate dopo l’uscita italiana della biografia Big Man, storie vere e racconti incredibili, rispecchia in pieno quello che tutti i fan della E Street Band hanno sempre pensato del gigante nero col sassofono, del fratello maggiore di Bruce. Lo stesso identico effetto delle sue parole me lo aveva fatto poco prima il libro, ben scritto anche grazie al mestiere narrativo di Don Reo, che lo ha fatto diventare romanzo. C’è del vero e c'è della leggenda, ma entrambe le cose sono spassosissime. Clarence a tratti si prende in giro, oppure confida ai lettori delle verità molto personali; racconta per esempio, con umanità, di questi anni duri, in cui a causa dei malanni alle ginocchia e alla schiena ha dovuto stringere i denti per essere là, alla destra del Boss. Ma non è mai mancato. Ora però, dopo l’ennesimo intervento chirurgico, a quasi 70 anni, afferma di essere a posto. Pronto per crepare (come scrive nel libro), o, in alternativa, per nuove battaglie. Da questa chiacchierata appare chiaro che Big Man non si considera in pensione. Ci sarà ancora di che divertirsi; il suo sax sarà ancora il ponte che unisce il rock al soul, nella musica di Bruce. Con buona gioia di tutti noi, che dopo il tour dell’anno scorso, magistralmente immortalato nel recentissimo London Calling: Live in Hyde Park, non aspettavamo altro che di sentircelo dire.

Ciao Big Man! Anzitutto, tutti vogliamo sapere come stai dopo l'ultima operazione. Avevi scritto che a questo punto saresti morto, ma pare non sia successo.
Sto veramente bene. E’ stato un lungo e difficile ricovero per cui quest'anno devo stare a riposo. E' il mio anno per guarire, e quando tornerò sarò al 110%! State pronti.
Come passi queste giornate di riposo, senza più nemmeno un buon sigaro (pare glieli abbiano vietati, ndr)?
Trascorro molti dei miei giorni facendo progetti e divertendomi con mia moglie. In questo modo torno un essere umano. Qualche volta quando sei sulla strada perdi il contatto con il mondo reale; io mi sto riconnettendo con quel mondo e sto rimettendo il mio corpo in forma. Questo è tutto quello che fondamentalmente sto facendo.
Veniamo al libro. Leggendolo sembra di essere lì a sentirti fare l'ennesima volta l'assolo di Jungleland. Sei soddisfatto di questa incursione nel mondo letterario?
L’assolo di Jungleland e la stesura del libro sono stati entrambi dei grandi sforzi creativi. Quando creo, sia che la mia creazione sia musica o letteratura, mi diverto allo stesso modo. Ho imparato molto più di quanto immaginassi sulla scrittura di un libro. E’ stata una grande esperienza. Pensa che ho già iniziato a scrivere il prossimo!
La magia dell'amicizia con Bruce è ben descritta, ma anche fra te e gli altri membri della Band esiste un rapporto così forte, da famiglia, come sembra?
Sì, c'è un forte senso della famiglia nella Band. Siamo insieme da tanto tempo e tutti siamo lì per lo stesso proposito, quello di rendere la musica di Bruce viva, reale. La felicità di essere lì tutti per questo motivo fa di noi una famiglia.
Io sono cacciatore, e ho scoperto che tu sei un fenomenale pescatore. Riesci a dedicare tempo a questa passione?
Non dedico abbastanza tempo alla pesca. E' il miglior modo di rilassarsi che io conosca. Riesco a pensare molto mentre pesco ed entro in un mondo diverso da quello che sono abituato a frequentare. Trascorro molto del mio tempo libero alle Florida Keys, il migliore dei posti per la pesca.
Sei specializzato in cucina italiana, oltre che amante della grappa, che è una specialità delle mie parti. Suggeriscici un piatto.
Le polpettine di carne italiane! Ho una ricetta segreta che ho creato ed è fantastica.
Il libro descrive bene il vostro passaggio dalla povertà al lusso. Riuscite, oggi, a restare in contatto con le cose di cui cantate?
Non ho mai lasciato quel nostro mondo del passato. Tu non puoi scordare da dove vieni; se lo fai allora è tutto finito. E' importante restare in contatto con se stessi e con la realtà dalla quale si proviene.
Sempre nel libro, citi molti musicisti e anche tanti scrittori. Dimmi della passione per il grande Norman Mailer.
Beh, il modo in cui lui si accosta ai suoi argomenti, il modo in cui ti racconta una storia, il modo in cui si spiega, fanno di lui un grande, grande scrittore.
La parte del libro in cui Norman descriverebbe i vostri fan come dei veri fanatici è stupenda, e molti sono proprio così. Certo c'è un rapporto unico fra voi e la vostra gente. Come li vedi tu, i vostri fan?
Cos'è un fanatico? Cos'è il fanatismo? Sai, io non penso che i miei fan siano fanatici. Loro amano Bruce, loro amano la E Street Band. Non penso che rinuncerebbero davvero alla loro vita per la Band. Il fatto che amino così la nostra musica ci sprona a restare forti e concentrati sul nostro più grande proposito: portare a tutti loro la gioia.
Hai smesso di tagliare i capelli quando Bruce sciolse la Band nel 1989. Continuerai non tagliarli?
Qualche volta considero l’idea di tagliarli, ma questi pensieri spariscono velocemente. Per cui no, al momento non penso che li taglierò mai.
Cosa pensi dei dischi di Bruce senza la Band?
Dischi senza la Band? Bruce ha registrato senza la Band? Io non ne so nulla.
Don scrive che la morte è uno dei tuoi argomenti preferiti...
Beh... non so. Ma se parli dei Grateful Dead, Jerry Garcia era mio vicino e buon amico. Con lui ho trascorso buona parte della mia vita. Mi manca e mi mancherà molto la sua musica.
Mentre si sapeva della grande amicizia con Danny, non ero a conoscenza di quella così forte con Terry Magovern, persona straordinaria che anche io ho avuto modo di incontrare, seguendovi ovunque per 20 anni. Lo vuoi ricordare?
Terry era uno dei miei migliori amici. Ha gestito il mio bar prima di iniziare a essere coinvolto nel nostro mondo musicale. All’inizio era mio assistente, poi ha avuto una dequalificazione professionale… e ha iniziato a lavorare per Bruce. Lo porto sempre dentro di me, lo amo moltissimo e lo amerò sempre.
Mi piace molto il capitolo del libro in cui parli dello chalet in Scozia dove ti sei sentito in pace. E' quello il posto d'Europa che preferisci?
Quella è stata una grandissima esperienza, ma non è il mio posto preferito in Europa. Ci sono tantissimi posti che amo là, e forse l’Italia è quello che preferisco in assoluto. Amo stare lì e quando ci vengo mi sento come se fossi a casa, non importa in quale città io sia.
Davvero tu e Bruce avete regalato una Chevy a una cameriera?
Quell’episodio compare nelle pagine grigie, quelle chiamate ‘leggende’. No, non le abbiamo regalato veramente la Chevy, ma avremmo potuto farlo… No, sono un raccontaballe… Sì lo ammetto: gliel’abbiamo data!
Esistono canzoni di Bruce che non ami?
Non ci sono canzoni che Bruce ha scritto che non mi piacciono. Ci sono alcune canzoni che preferisco rispetto ad altre, ma non ce n’è una che davvero non mi piace. Artisticamente si esprime in modo incredibile.
Il rock finirà con la fine della E Street Band?
Non prevedo la fine della E Street Band, ma sono sicuro che quando saremo tutti morti ci sarà un’altra E Street Band da seguire.
Se non avessi vissuto tutta la tua vita artistica a fianco di Bruce, con chi l'avresti voluto fare?
Se non ci fosse stato Bruce avrei voluto spendere la mia vita artistica con Mick Jagger.
Quali sono il tuo film ed il tuo regista preferiti?
Martin Scorsese è il mio regista preferito e credo che Robert De Niro e Sean Connery siano due dei miei attori di riferimento. L’uomo che volle farsi re è uno dei miei film favoriti.
Quando il concerto supera le tre ore e quello là non accenna a smettere, ti viene mai voglia di tirargli il sax in testa?
Ah!!! Il tempo scorre molto veloce quando suoniamo. Non ci si rende conto di quando sono passate le tre ore. Non guardo l’orologio. Sento lo scorrere del tempo solo nel mio cuore.
Qual è il concerto che non dimenticherai mai?
Quello alla prigione di Sing Sing del quale parlo nel libro è uno di quelli che non potrò dimenticare. Per ovvie ragioni. E se non le conoscete, ragazzi, leggetevi il libro (Big Man ride, ndr).
C’è un desiderio che ancora non sei riuscito a realizzare?
No, non c’è un desiderio che non ho ancora realizzato. Penso proprio di averli realizzati tutti nella mia vita. Il mio più grande desiderio in questo momento è di continuare a fare quello che sto facendo.
Qual è il più grande insegnamento che hai tratto dalla meditazione?
La lezione più importante che ho ricevuto dalla meditazione è imparare a vivere con se stessi, imparare a stare da soli, a stare tranquilli. E ad aprire la propria mente.
Quello del 2009 è stato l'ultimo tour della E Street Band?
Assolutamente no. Non penso mai che ci sarà un ultimo tour.
Ciao Clarence, grazie. Non sai con quanta passione ti aspettiamo in Italia. Dì a Bruce di darsi una mossa.
Ok. Ok. Ok.

lunedì 12 marzo 2012

Miami & The Groovers - Good Things - Anno 2012


Ecco un album di semplice rock’n’roll senza fronzoli, realizzato da un gruppo di ragazzi italiani - Lorenzo Semprini, chitarra e voce, Claudio Giani, sax, Marco Ferri, batteria, Beppe Ardito, chitarra, Alessio Raffaelli, piano e tastiere, Luca Angelici, basso - che consumano la loro dipendenza dal sogno al sole della riviera romagnola. I Miami and The Groovers con due album e tante belle canzoni, centinaia di sudati concerti in Italia e fuori, anni di passione e chilometri, si sono guadagnati la stima di tutti gli appassionati del genere. Ora danno alle stampe questo “Good Things”, che di certo porta con sé ulteriori elementi di esperienza e mestiere. La title track è un brano rock diretto basato sulle chitarre, come la successiva “On a Night Train”. Ha un certo spessore la storia chitarristica “Audrey Hepburn’s Smile”, più lenta e oscura la pianistica “Cold in My Bones”. “Burning Ground” è il rock che strizza l’occhio al punk inglese, “Walkin’ All Alone”, con Ric Maffoni ospite, ha l’andatura epica della frontiera, con ritornello accattivante e un bel violino finale. “Before your Eyes” è una ballata d’autore. “Always the Same” non aggiunge e non toglie nulla, ma vanta un poderoso assolo finale di chitarra, mentre “Under Control” ci regala armonica e blues. La autocelebrativa “The Last R’n’R Band” invita a fare festa. L’intro di Israel Nash Gripka è una piccola perla che apre alla malinconia di “Postcards”. Infine c’è “We’re Still Alive”, un brano positivo ed energico, che merita una menzione a parte perché esce dal contesto generale ed entra nella tradizione folk irlandese, con fisarmonica, pedal steel e banjo, segnando una decisa incursione in un territorio differente. Beh, se la misura con cui giudicare un disco deve imprescindibilmente essere basata su una manciata di buone liriche, su un sound diretto e ballabile, e soprattutto sul cuore che ci mette chi lo produce, queste caratteristiche in “Good Things” ci sono tutte. Quindi, prendiamoci le ‘buone cose’ della vita e usiamole per tirare avanti, soprattutto in questi tempi bui. Purtroppo il lavoro rischia di perdersi nella inflazionata produzione discografica italiana di questo genere filoamericano, di questo cantato forzatamente inglese, e non si può nascondere la sensazione del cliché. D’altronde inventare cose nuove, oggi, è impresa impossibile, e certo non compito per una buona realtà rock come i Miami and The Groovers.

giovedì 8 marzo 2012

Cesare Carugi - Here's to the Road - Anno 2012

Cesare Carugi è un giovane rocker italiano schietto e vero, che ha appena dato alle stampe un bel disco intriso di buone canzoni e del sound americano che più ama. “Too Late to Leave Montgomery” è il pezzo apripista del lavoro e ne incarna tutti i contenuti; un’ottima ballata country che subito inquadra scenari di frontiera. “London Rain” è sorretta da una bella chitarra elettrica in sottofondo, ed ha un’andatura in crescendo. “Blue Dress” è un lento molto cupo che avvicina alle atmosfere noir di Nick Cave, Cesare ci mette anche una voce enfatica che esalta la narrazione. “Goodbye Graceland”, con ovvi riferimenti alla storia del rock, è un vero omaggio, ottimamente realizzato in chitarristico stile Clash. “Caroline” è uno dei pezzi più riusciti del progetto, una folk song d’amore in cui compare anche un bellissimo violino (Fulvio Renzi). Per la ballata pianistica “Dakota Lights & the Man Who Shot John Lennon” dice tutto già il titolo, a dimostrazione della capacità di Carugi di andare a scovare storie (e c’è il contributo di Michael McDermott), come per la successiva, ritmo allegro e ballabile, “There Ain’t Nothin’ Wrong With Goin’ Nowhere”. “Death and Taxes” sfiora il soul, mentre in “32 Springs” torna il rock e appare l’amico Riccardo Maffoni. “Every Rain Comes to Wash It All Clean” è ruspante ma non lascia troppo il segno, nonostante la presenza di Daniele Tenca. La chiusura è affidata all’acustica e struggente “Cumberland” in cui emerge il contributo del cantautore fiorentino Max Larocca. Nel complesso un bel disco di rock classico, suonato con stile e ben cantato, che supera l’evidente problema del “già sentito” con una passione sincera e delle liriche davvero interessanti.

lunedì 5 marzo 2012

Teatro - Occidente solitario - Anno 2012

La domanda sorta spontanea al pubblico di Sondrio dopo la visione della commedia nera “Occidente solitario”, per la rassegna Sondrio Teatro, è stata: “Era proprio necessario andare fino in Irlanda per scovare questa storia di Martin Mcdonagh?”. In effetti, siamo certi che in Italia ci siano sceneggiatori, giovani o meno giovani, affermati o no (basterebbe andare a cercarli e dare loro una possibilità), in grado di proporre vicende e spunti decisamente più interessanti. Perchè al netto della straordinaria bravura di due dei giovani attori italiani più promettenti, Claudio Santamaria e Filippo Nigro, la vicenda presentata al pubblico della sala Don Chiari è apparsa poca cosa. Va bene la solitudine e la vita misera di questi due fratelli che navigano le acque di una violenza continua, va bene la sottolineatura di una vita occidentale, in un paese come l’Irlanda, non così radiosa come spesso viene dipinta, va bene la crisi d’identità dell’uomo di Chiesa (Chiesa che proprio in quel Paese ne ha vissute di tutti i colori), ma al di là di tutte queste cose, anche un po’ ovvie, la trama di “Occidente solitario” è davvero il nulla. Tengono in piedi la baracca, come detto, Santamaria e Nigro, due fratelli stupidi, rozzi e litigiosi, protagonisti di un far niente quasi irritante, in una provincia sofferente dalla mentalità ottusa e dal futuro incerto, in cui la redenzione proposta da un prete alcolizzato e suicida non basta a rimediare a niente. In effetti una certa angoscia, mista all’ironia, lo spettacolo è riuscito a trasmetterla, e questo è forse il risultato auspicato. Ma resta il fatto che la vicenda appare monotona e trascinata all’eccesso, forse anche a causa della trasposizione italiana. Certo è che all’ennesima rissa i due fratelli riescono a irritare anche il pubblico. Tralasciamo sull’interpretazione, evidentemente da esordiente, del giovanissimo prodotto televisivo Nicole Murgia, che rimandiamo ad una prossima fatica, ma anche il prete Massimo De Santis è apparso una spanna sotto i due protagonisti, semplicemente fuori contesto. Terminate le critiche va rimarcato ancora il grande mestiere proprio dei due, volti cinematografici che sicuramente hanno contribuito al tutto esaurito del teatro (anche se pare sia una felice costante di questa stagione sondriese). Speriamo di vederli presto impegnati in una pièce che possa esaltare ancora di più le loro indubbie capacità, o almeno che non li riduca a passare due ore, pur con grande professionalità, a mettersi le mani addosso, sputare, ruttare, grattarsi, inveire, mangiare patatine e bere finto whisky annacquato, vera bestemmia per gli amanti - come chi scrive - della Grande Terra d’Irlanda. Almeno fosse stato vero!

domenica 4 marzo 2012

Intervista a Willie Nile - Anno 2012

WILLIE NILE, IL SIGNORE ROCK DI NEW YORK
Intervista di Marco Quaroni Pinchetti

Fotografie di Cristina Arrigoni

Il signor Willie Nile da New York City è uno dei migliori rocker ancora in circolazione. Ha passato la boa dei 60, come quasi tutti gli ultimi maestri, ma sprizza una vitalità artistica e una classe che pochissimi riescono ancora a sfoggiare. E’ tornato prima di Natale in Italia per i concerti della manifestazione benefica Light of Day, in cui ha dato un’altra volta prova delle sue grandi qualità, oltre che di cantautore, anche di performer live. In questa chiacchierata fa il punto su un periodo artistico fra i più felici della sua lunga carriera.

Ciao Willie, come va la vita?
La mia vita è fantastica al momento. Sono stato cinque mesi in tour tra Europa e Usa con grande successo e il nuovo album sta avendo bellissime critiche, ciò mi rende molto felice.
Sei in Italia in questo periodo per Light of Day, che ti ha sempre visto partecipe e impegnato. Vuoi dire qualcosa su questa manifestazione benefica, che anche nel gennaio scorso ti ha visto sul palco insieme a Bruce Springsteen?
Facciamo questo tour per raccogliere soldi per la ricerca sul Parkinson, abbiamo raccolto negli anni più di due milioni di dollari. Lo scorso gennaio ho fatto un grande concerto in New Jersey, durante il Light of Day. Bruce è venuto e ha partecipato alla mia canzone Heaven Helps the Lonely, è stato bellissimo, un gran momento per me. Bruce è molto generoso con i musicisti e mi ha sempre supportato. Suonare con lui sul palco è come stare in piedi vicino ad un vulcano in eruzione, suona e canta con cuore ed anima, come se la sua vita dipendesse da quello. Per me è lo stesso, la mia vita dipende da questo.
Dopo Streets of New York, è come se la tua carriera fosse sbocciata una seconda volta, come se fossi rinato. Hai sfornato tre dischi di altissimo livello in pochi anni. Da cosa deriva questa urgenza creativa?
Si è vero, è stata come una rinascita per la mia carriera. Non so perché ma sono molto ispirato in questo periodo dalla musica rock e la possibilità di ispirare altre persone mi piace. Le canzoni che sto scrivendo ora sono molto significative per me e spero che anche chi le ascolterà le troverà significative. Credo che il rock’n’roll possa cambiare il mondo, anche durante questo difficile periodo economico in cui il mondo è diviso.
Come sta andando The Innocent Ones?
Sta andando molto bene, la BBC Radio ha detto che è l’album del 2011. La gente lo apprezza molto. In Usa il giornale Usa Today ha scelto One Guitar come la numero uno della nazione e l'ho appena suonata live due giorni fa su un canale Tv nazionale.
Song for You, secondo me, è una delle tue più belle ballate di sempre. Raccontaci come nasce una canzone del genere.
Grazie, l'ho scritta col mio amico batterista Frankie Lee, nel mio appartamento a NYC, stavo suonando il piano e abbiamo scritto la canzone in mezza giornata. Ho voluto scrivere questa canzone per confortare chi ha una vita difficile. John Lennon è stato una forte fonte di ispirazione per la canzone, magari gli sarebbe piaciuta.
Utilizzi spesso i cori in una sorta di gospel applicato al rock. Ma nei tuoi album ci sono pure elementi country-folk. E' il vecchio discorso del ritorno alle radici?
Sì, penso di sì. Mi piacciono tutti i tipi di musica, rock, folk, gospel, blues, punk, ognuna di loro mi parla in modo diverso, ed è divertente suonare stili differenti.
Da molti sei considerato il lato newyorkese, più urbano e chitarristico, dell'Asbury Sound di Bruce e compari. Ti ritrovi in questa definizione?
Sì, penso di sì. Le strade di New York mi parlano, amo il ponte che c'è a NY. I ricchi, i poveri, i bohémien, i pazzi, e tutto ciò che sta nel mezzo. C'è un ritmo in questa città, come un bellissimo, selvaggio batticuore. Amo il battito del New Jersey, la parte migliore della musica mondiale, Bruce, Little Steven, Southside Johnny, sono come maghi che insegnano al mondo a ballare.
In Italia la gente ti ama anche per i tuoi intensi spettacoli dal vivo. Sei uno degli ultimi a non risparmiarsi mai, sul palco. Qual è la fase del tuo lavoro che preferisci?
Per me non c'è differenza, amo tutte le fasi del mio lavoro, tutto è basato sulle canzoni, il significato che queste hanno per me danno significato a tutto il resto. Amo suonare in Italia, il pubblico qui è molto caldo e partecipe. Capiscono quando un artista propone qualcosa di vero. Ho molti veri amici italiani ora e sono molto felice per questo. L’Italia è come una seconda casa per me.
Hard Times in America... In questo periodo di grande crisi mondiale, come vanno le cose nel tuo Paese?
L'economia fa schifo ora in Usa. I ricchi diventano più ricchi e i poveri più poveri. Non è giusto. Ora c'è una rivoluzione in corso nel Paese con gli Occupy Wall Street Movement, e non si rassegneranno facilmente. Le Big Corporations e i politici corrotti hanno avuto vita facile per troppo tempo e spero che la situazione migliori presto.
Tu fai parte della generazione degli ultimi grandi rocker. C'è qualche giovane che ti senti di consigliere ai nostri lettori?
C'è un duo italiano che amo molto, The Cyborgs, poi Joel Plaskett dal Canada, e i Gaslight Anthem dal New Jersey.
Stai lavorando a qualche altro progetto?
Si, sto lavorando al nuovo album, è finito e voglio registrarlo in primavera e farlo uscire in autunno. Sono molto contento, non vedo l'ora che esca.
Grazie Willie, spero di rivederti presto in Italia.
Grazie mille Marco per il tuo interesse e per le tue parole gentili.

Clint Eastwood - J. Edgar - Anno 2012

Siamo giunti con gioia all'annuale appuntamento con il nuovo lavoro del celeberrimo Clint. Questa volta si tratta di un racconto biografico, che attraverso la vita dell'antipatico, ossessionato, cinico e geniale J. Edgar Hoover, ci racconta l'America dal primo dopoguerra agli anni '70, attraversando alcuni dei casi politici internazionali più importanti del secolo scorso. Tutto quello che Hoover ha vissuto raccogliendo dossier su chiunque, spiando e controllando, nella sua personale battaglia per i valori di un ipotetico “Paese ideale” contro i radicali, la malavita, gli avversari politici. Il fondatore e direttore storico del Bureau (FBI), cui dedicò la vita e per cui sacrificò la vita, è interpretato da un Leonardo Di Caprio che vale l'Oscar. Ma anche gli altri elementi del cast non scherzano, a partire dalla gelida Naomi Watts nei panni della segretaria fedele Helen Gandy e dal vice Clyde Tolson cui presta il volto, da bamboccio, un bravo Arnie Hammer. Judi Dench è invece la madre padrona a cui Edgar è sempre stato devoto. Non era compito semplice raccontare uno degli uomini più potenti e discussi d'America facendo emergere tutte le sue manipolazioni ma al tempo stesso, descrivere con distacco il trasporto represso per un altro uomo, la maniacale precisione, le innovazioni che portarono a grandi risultati per l’indagine del tempo. Da cineteca e tipiche della classe del regista almeno tre scene: il primo incontro con la futura segretaria nella biblioteca, la reazione gelosa di Tolson che sfocia nel bacio gay, e infine quella in cui Tolson, ormai vecchio, smaschera una ad una le menzogne di Edgar, con uno scambio di fazzoletto che sottolinea con un passo magistrale la grande passione fra i due. Tanti presidenti degli Stati Uniti hanno convocato Hoover a inizio mandato per liberarsene; alla fine si è sempre liberato lui di loro. Li ha guardati sfilare dalla finestra del suo ufficio, conoscendone già gli altarini. Lui sapeva tutto di tutti. Clint, che per limiti temporali non ha potuto scavare a fondo in tutte le vicende che hanno riguardato Hoover, ha invece descritto l’uomo con la sua mano sicura, con la sua ricercatezza per scenografie e costumi, usando più di altre volte il flashback, in un film che per essere apprezzato del tutto va visto più di una volta. Sembra, per certi versi, fratello di “Changeling”, il lavoro del 2008 in cui l'81enne di San Francisco metteva alla berlina la polizia californiana degli anni ‘30; ne sfiora gli argomenti con l’indagine sul caso Lindbergh. Eastwood è l’ultimo dei classici, da studiare.

Luf - I LUF CANTANO GUCCINI - Anno 2012

Dario Canossi, padre dei Luf, ormai consolidato gruppo folk a livello nazionale comprendente musicisti camuni e valtellinesi, ha realizzato un suo vecchio sogno. Quello di incidere su disco le canzoni che cantava nei concerti da ragazzo, quelle del maestro di Pavana, Francesco Guccini. E per realizzarlo non poteva fare altro che tornare ancora a trovarlo, il maestro, proprio a Pavana. Lo ha fatto l’autunno scorso, chiedendogli il permesso con rispetto e umiltà. Un permesso che Francesco ha prontamente accordato. Ne è venuto fuori un album, “I Luf cantano Guccini”, che abbiamo avuto il piacere e l’onore di ascoltare in anteprima. Un disco ben fatto e soprattutto ben suonato, in cui alcuni grandi classici gucciniani vengono rivisitati in versione country-folk senza nè stravolgerne la melodia nè cambiarne la struggente bellezza. Al massimo movimentandoli un po’, in salsa Luf. Quella salsa che ormai è un marchio di fabbrica unico (ascoltare anche solo l’ultimo album di canzoni loro, “Flel”, per credere). “Bologna”, “Dio è morto”, “L’avvelenata” sono solo alcuni degli storici titoli che Dario - con un timbro vocale che ricorda molto proprio Guccini - e soci hanno affrontato con perizia, lasciandoli intatti nella loro bellezza e restituendoli in una sorta di omaggio per i 70 anni appena compiuti dal grande. All’uscita dell’album il 17 gennaio, seguirà un tour dedicato per cui il branco dei Lupi attende richieste di date da parte di tutti. Ricordiamo in questa sede i nomi del branco, a parte il leader Dario Canossi: Sergio “Jeio” Pontoriero (basso, voce), Matteo Luraghi (basso, voce), Cesare Comito (chitarra, voce), Alessandro Apinti (violini), Pier Zuin (cornamuse), Sammy “Chupa” Radaelli (batteria), Stefano Civetta (fisarmonica, voce). Info: www.iluf.net.