Introduzione

"Come scrittori di romanzi non siamo capiti".
Introduzione di Ugo Gugiatti a "L'uomo delle taverne", romanzo del Pinchet

venerdì 4 maggio 2012

Woody Allen - To Rome with Love - Anno 2012


Torniamo a parlare di un nuovo film di Woody Allen dopo l’exploit retrò che era stato, sotto Natale, “Midnight in Paris”. Questa classica commedia alleniana ambientata stavolta nella città eterna richiama a tratti proprio l’ultimo lavoro, soprattutto nella parte della storia in cui è protagonista Alec Baldwin nelle vesti di un ricco architetto “venduto ai centri commerciali” che torna indietro nel tempo al suo anno spericolato e innamorato trascorso a Roma in gioventù. C’è poi un Roberto Benigni in ottima forma vestire i panni di un uomo normalissimo che d’improvviso, a causa del caotico circo mediatico e televisivo, diventa famoso. Poi c’è la giovane coppietta di provincia che attraverso il reciproco tradimento si unisce ancora di più, e qui spicca il mestiere di Antonio Albanese. Infine c’è l’episodio in cui torna a recitare proprio Allen, nei panni di quel se stesso che più conosciamo e che spesso si riflette anche sui suoi protagonisti. Stavolta è un regista d’opera in pensione “che ha sempre precorso i tempi” e che, da inimitabile talent scout, scova nel futuro consuocero e becchino, un fenomeno del canto, purtroppo però solo sotto la doccia. Non si tratta di uno dei più bei film del regista newyorkese, che pare voler insistentemente continuare a scavare fra i suoi cliché; il rapporto uomo-donna e quello che questi hanno con il sesso, le frustrazioni del non avercela fatta e l’effimero di una società sempre meno digerita. Non mancano però picchi di genio comico qua e là, una vera valanga di comparsate da parte di attori italiani, e soprattutto una cartolina di Roma come se ne sono viste poche nella storia del cinema. Nel complesso si esce dal cinema soddisfatti; Allen nelle ultime prove “europee” non ha mai deluso. Di Baldwin la battuta che resta: “Se una cosa ti sembra troppo bella per essere reale, è perché non lo è”.

martedì 1 maggio 2012

Luf e Gang a Colere, 28 aprile 2012

La festa del primo maggio sulle montagne di Colere in provincia di Bergamo è uno degli ultimi baluardi di quel comunismo reale e ideologico fatto da braccia di muratori e camicie intrise di sudore di cui tanti, oggi, sentono la mancanza. Una di quelle manifestazioni operaie nel vero senso della parola, distanti migliaia di chilometri dalla baraonda giovanile, forzatamente alternativa e un po’ snob che ormai da tempo sono diventati altri appuntamenti sindacali di maggior enfasi mediatica. E lo scorso 28 aprile, con la presenza sul palco dello storico Palacolere (un tendone abbarbicato sotto le vette della Presolana che in vent’anni ha ospitato alcuni fra i massimi artisti del rock a livello internazionale, ma che a breve verrà raso al suolo...), di due delle band italiane che dell’ideologia hanno fatto una bandiera come i ruspanti Luf e come i barricaderi Gang, la festa si è tramutata in cerimonia di fratellanza collettiva. Hanno aperto le oltre quattro ore di musica i Luf, sempre più affermata realtà folk rock e cantautorale, proponendo a sorpresa il motivo della springsteeniana “American land”, la canzone dei lavoratori emigranti in terra americana, che presto presenteranno in versione italiana. La band di Dario Canossi ha suonato per due ore i suoi brani più importanti, fra cui annotiamo anche una intensa “Il vecchio e il bambino”, dall’ultimo disco “I Luf cantano Guccini”, e la bellissima “Vorrei” dedicata a Peppino Impastato e scritta con il comico Flavio Oreglio. Partendo dal rodato irish sound imperniato su banjo, cornamusa e fisarmonica, da segnalare la debuttante “Angeli di neve” dedicata alle scorte di Falcone e Borsellino, vent’anni dopo le stragi. Il pubblico, presente in gran numero, ha mostrato di apprezzare, ed è stato letteralmente catturato all’entrata sul palco di Marino e Sandro Severini, che hanno suonato insieme agli amici della Valcamonica alcuni brani fra cui una corale “Comandante”. Poi è stata la volta dei marchigiani, l’unica rock band al mondo a prendersi il palco sulle note dell’Internazionale. Il concerto ha avuto inizio, come sempre, con l’adrenalinica “Socialdemocrazia”, mostrando immediatamente tutto il mestiere e la forma di un gruppo consolidato da anni e anni di dischi, chilometri e concerti. Di seguito i fratelli Severini (sul palco con i fidi Francesco Caporaletti al basso, Fabio Verdini alle tastiere e Luca Ventura alla batteria) hanno pescato a piene mani nei loro dischi storici (ma da troppo tempo ne manca uno nuovo), riproponendo con la consueta carica classici come “La corte dei miracoli”, “La pianura dei sette fratelli”, “Bandito senza tempo”, “Sesto San Giovanni”, “Kowalsky”, “Oltre”, “La lotta continua”. L’ultimo bis, sulle orme dello strimpellatore indimenticabile Joe Strummer, è stata una torrenziale “I fought the law”. Fra un brano e l’altro Marino non ha lesinato brevi introduzioni, ricordando l’importanza della storia, della memoria e della tradizione, come armi indistruttibili contro la paura di questi tempi difficili. Non è mancata una breve lezione filosofica, e Marino Severini è uno degli artisti italiani che se la possono permettere, sulle differenze fra Gramsci e Togliatti. Con il solito augurio di “tanta buona fortuna”, tutti a casa, tutti a ridiscendere la montagna, tutti felici di credere ancora in un sogno che forse tale non è più. Ma l’importante, per quegli uomini là, è crederlo ancora. Una festa dei lavoratori del genere è stata possibile grazie all’ennesimo sforzo dei tanti instancabili volontari che anche quest’anno hanno fatto diventare un piccolo paese nel cuore delle Alpi il vero fulcro italiano della musica rock d’autore più vera, quella che non si compra col prezzo del biglietto - che non era previsto - perché non ha nessun padrone.