Dopo “Anime salve”, “Ovunque
proteggi”. Dopo “Ovunque proteggi”, “Sangue e cenere”. Sto parlando di quelli
che, a mio modesto parere, sono i dischi definitivi del cantautorato italiano
degli ultimi vent’anni. Da De Andrè a Capossela fino al grande ritorno dei
Gang. “Sangue e cenere” è l’approdo di Marino e Sandro Severini, il nuovo
capitolo di una storia lunga ormai più di trent’anni (“Tribes’ Union” è del
1984), e arriva a 15 dall’ultimo lavoro di inediti, “Controverso”. Come dire,
ci hanno riflettuto un bel po’ prima di buttarlo fuori, ma alla fine è venuto
come doveva venire, ed è un disco immortale. Un disco realizzato col
crowdfunding, fregandosene ‘una volta per sempre’ delle case discografiche e
facendosi di fatto produrre dai fan che per una vita ne hanno apprezzato
coerenza, onestà, appartenenza, lavoro duro e umiltà. Ho conosciuto Marino e
Sandro una ventina di anni fa a Colere, bellissimo borgo sulle Alpi bergamasche,
dove quasi ogni anno fin dai tempi della ‘trilogia italiana’, si sono esibiti
in spettacoli taumaturgici anche per merito degli organizzatori, un manipolo di
pazzi rocker montanari cresciuti con i piedi ben piantati nel bosco e la testa
ben dispersa a Nashville. E così ogni 12 mesi, da allora, ci siamo ritrovati
lì, all’ombra della Presolana, come fratelli che si rivedono anno dopo anno, e
si raccontano quello che è successo, e crescono insieme. Intuii subito,
nonostante avessi meno di vent’anni, che questi due signori marchigiani avevano
qualcosa in più. Non erano solo due artisti coltissimi, ai quali Joe Strummer
aveva messo in mano la chitarra e la sete di conoscenza aveva fatto divorare migliaia
di libri. Erano anche e soprattutto due brave persone, due cantastorie, due
instancabili lavoratori (inizialmente facevano i facchini per mantenere la passione
e i viaggi musicali in ogni angolo d’Italia) che amano la gente che incontrano
per la strada, la stanno ad ascoltare e se ne ricordano nomi, cognomi e
soprannomi, vizi e virtù, in quella condivisione che per tutti loro, e tutti
noi, è fonte di vita. E allora lasciano spazio sul loro palco ad artisti che
apprezzano, o scrivono brani per il disco di un amico, o dedicano la canzone
alla figlia appena nata di un operaio che li segue dagli inizi. Persino a me
hanno donato la prefazione ad un breve racconto, persino a me hanno tenuto un
posto sul loro proscenio. Sono i Gang, semplicemente, e non ce ne sono altri
così, in Italia e forse anche fuori. In tutti questi anni è sempre stato per me
ingiusto come un gruppo di uno spessore musicale, intellettuale e umano di
questo tipo non abbia riscosso il successo che avrebbe meritato. Ma il successo
in questo paesucolo chiamato Italia forse ha prezzi troppo alti per persone di
tale coerenza e di questi valori, per artisti che hanno fatto dell’impegno
civile una causa. Così alla lunga ho fatto pace con questa rabbia, e mi sono
convinto che probabilmente non lo volevano nemmeno, probabilmente considerano
tale quello che già hanno. E le loro beghe con discografici e affini, con
chiunque volesse mettere il cappello sulle loro canzoni, nel tempo, lo hanno
dimostrato. E’ rimasto un pubblico numeroso e fedele di gente che andrebbe
a recuperarli in capo al mondo se avessero una gomma bucata, che farebbe
qualsiasi cosa per loro perché li considera di famiglia. Un pubblico che alla
fine, quest’anno, ha tramutato questo amore in una raccolta fondi che ha avuto
un riscontro clamoroso - 1186 co-produttori - diventando di fatto la nuova vera
casa discografica dei Gang. E’ un caso unico in Italia, almeno di queste
dimensioni. E non è forse un successo questo? Non è forse questo che il buon
Frank Russell Capra ci ha lasciato alla fine di “La vita è meravigliosa”? La favola
vera dei Gang ha avuto, con questo progetto, il suo giusto compimento. Il
coronamento ideale benedetto dall’angelo Clarence.
E ora veniamo al disco. Un rock
classico sorretto dalla vibrante chitarra di Sandro per descrivere i nostri
tempi, questa è “Sangue e cenere”, brano che apre il sipario sull’album nel
modo più potente possibile, evocando “Socialdemocrazia”. Alla seconda traccia
si approda subito dalle parti delle emozioni forti con “Non finisce qui”, una ballata che racconta dell’emigrazione verso il Nord Italia, alla
Breda ‘ferro e fuoco’, dove oltre al lavoro e quindi la paga, si prende anche
il cancro. Il tutto raccontato con gli occhi del figlio, una memoria struggente.
Il sax che accompagna tutto il brano è meraviglioso. “Alle barricate”, dedicata
alle barricate del 1922 a
Parma contro Balbo, torna sulle strade combat rock dei primi Gang, con aggiunta
di violini e fisarmoniche Irish. Il tema, come nella successiva danza “Ottavo
chilometro” (titolo tratto dal libro del grande partigiano Wilfredo Caimmi,
fonte di ispirazione di Marino) è quello della Resistenza e dell’antifascismo.
Su “Marenostro” c’è davvero ben poco da dire. Una preghiera, un valzer
commovente, che racconta l’odissea clandestina di chi traversa il mare su una
barca per cercare speranza. E lo racconta con una grazia che solo la penna di
Marino Severini oggi in Italia riesce a trasmettere in una sola canzone. E’
indubbiamente una deflagrazione di dolcezza, umanità, bellezza che terremota
per sempre uno Stato corrotto, mafioso, antimeritocratico, gerontocratico, clientelare
e imputridito nella sua stessa meschinità. “Perché Fausto e Iaio?” torna sulle
strade del rock e rinverdisce la tragica vicenda di Fausto Tinelli e Lorenzo
Iannucci, due diciottenni frequentanti il Leoncavallo, uccisi da estremisti di
destra nel 1978. “Nino” (Gramsci) è un nuovo inno comunista, forse
anacronistico, ma non per chi ha fatto di quella bandiera, rossa, una storia di
vita, come Francesco Guccini, o come i fratelli Severini. Un pezzo capace di
risvegliare le coscienze più sopite. “Gli angeli di Novi Sad” è un’opera orchestrale
fatta canzone, una cosa che pochissimi avevano potuto permettersi. Si parla
della guerra in Kosovo, “patto fondante della nuova Europa”, a detta di Marino.
Vittima il popolo serbo. Una boccata d’ossigeno è rappresentata a questo punto
dal soul “Più forte della morte è l’amore”, bellissima, colorata dai fiati e
dedicata alla figura del pacifista Gabriele Moreno Locatelli, ucciso a Sarajevo
nel 1993. “Nel mio giardino” è un gioioso rhythm and blues che alleggerisce i
temi, diverte e raggruppa una lunga serie di bei ricordi. Il sipario cala come
meglio non potrebbe, con la poesia devastante, soprattutto per chi ha figli, “Mia
figlia ha le ali leggere”. Ed è il coronamento di un capolavoro assoluto. Si
sente la mano dell’esperto rocker americano Jono Manson in fase di produzione
artistica, un forte contributo della sezione fiati (c’è anche Clark Gayton al
trombone, direttamente dalla nuova E Street Band), ed è evidente che i Gang
avevano ancora delle grandi storie da raccontarci.
Non so che altro dire, se non che
non vedo l’ora di riabbracciarli, a Colere, il 2 maggio. Per sederci ancora una
volta intorno al fuoco e raccontarci com’è andata, come va, come potrebbe
andare, quanti capelli in meno, cosa è successo al barista del bar dell’angolo
e quanto costa, oggigiorno, la cinghia di trasmissione di una fottuta macchina.