Introduzione

"Come scrittori di romanzi non siamo capiti".
Introduzione di Ugo Gugiatti a "L'uomo delle taverne", romanzo del Pinchet

giovedì 5 luglio 2012

Bruce Springsteen and the E Street Band - Colonia, Berlino, Milano, Trieste; maggio e giugno 2012

Quattro concerti di Bruce Springsteen con la E Street Band fra fine maggio e inizio giugno, due in Germania e due in Italia, sono tanta roba, soprattutto a livello emotivo. Questa però è un’analisi complessiva, non voglio addentrarmi nello specifico di ogni singolo spettacolo, anche perché le diverse sfumature sono molte, come sono tante le magie che quest’uomo autentico, sincero, vitale e impegnato, ha saputo regalarci, ancora una volta, senza trucchi, solo con il suo rock e una passione inesauribile. E anche perché per recensire un concerto come quello milanese, ormai, non avrei più parole. Parto dunque da una considerazione basilare: il Wrecking Ball Tour è frutto di un grande disco, un progetto con un’idea centrale forte, e ciò basta a renderlo unico. Che poi Bruce abbia deciso di spostare ancora più in là l’asticella e di superare se stesso arrivando, nel caso specifico di Milano, a sfiorare le quattro ore sul palco senza una sola pausa, è un fatto oltre natura, che riguarda solo ed esclusivamente questo celeberrimo poeta 62enne, senza ombra di smentita il più grande performer di tutti i tempi. Nel tour precedente, tre anni fa, suonava in media mezz’ora di meno, e già ci sembrava mostruoso. Ma passiamo oltre. Il concerto ha come base 7 o 8 pezzi del nuovo album. A parte We Take Care of Our Own, inno rock tipico del Bruce post 2000 che al momento dell’uscita in forma di singolo non mi aveva entusiasmato ma che dal vivo è possente, le altre canzoni del disco presentate sembrano uscire dal contesto generale del live per proporci il Bruce 2012, più cantore folk dei nostri tempi difficili che rockstar internazionale. A mio parere questi brani sono a tutti gli effetti la marcia in più del tour e dimostrano come il progetto iniziale, che non prevedeva la E Street Band, forse lo avrebbe portato in giro in altra veste, se solo lo scorso anno non fosse mancato Clarence Clemons. Questo è il nuovo Boss, che guarda con favore al periodo Seeger Sessions e forse si affaccia ad un futuro più intimo. In Wrecking Ball come in We Are Alive il momento dell’ingresso di tutti i fiati catapulta lo spettatore dall’introspezione all’esplosione soul. Il giro potentissimo e incazzato di Death to my Hometown è una pura marcia irlandese e Shackled and Drawn, con il finale cantato dal Boss fra la gente insieme alla splendida voce nera di Cindy Mizelle, è una delle parti più intense dello spettacolo. Jack of All Trades, dedicata ovunque a chi sta lottando contro la crisi, è la canzone fulcro del concerto. Una ballata in cui la parte centrale con la tromba di Curt Ramm sembra accompagnare il funerale dei sogni. Solitamente collocata all’inizio dei bis, Rocky Ground è fondamentalmente un bellissimo gospel, e la parte rap che fa capolino anche dal vivo con la corista Michelle Moore quasi non si nota. Land of Hope and Dreams e American Land, già conosciute, sono gli altri due pezzi del disco che vengono presentati, la prima frequentemente ma nella diversa veste che le ha dato l’album, la seconda quasi mai (l’ho sentita solo a Colonia, su richiesta). Ecco, in questo pugno di canzoni, (è un peccato che del disco ne siano state tralasciate altre, come Easy Money o This Depression), sta la differenza basilare con il tour precedente, e qui dentro di rock ce n’è poco. Il resto dello show è la sua storia, la nostra storia. E’ puro Springsteen, bellezza. Uno Springsteen in stato di grazia che da Colonia a Trieste ha sempre superato le tre ore abbondanti di spettacolo, presentando i pezzi di una carriera quasi quarantennale, in una cavalcata epica in cui si dona completamente alla sua gente, ci si butta proprio dentro, sorridendo, da capopopolo quale è. Arriva a mescolare un po’ le carte il superbo Apollo Medley (The Way You Do The Things You Do e 634-5789) - ascoltato a Colonia e Trieste - che Bruce introduce esaltando l’importanza del soul nella sua formazione e nella sua carriera. Poi ci sono le varie sorprese che fanno capolino e lasciano senza parole. Impossibile non citare Honky Tonk Women a Colonia, When I Leave Berlin in apertura e Save my Love su richiesta a Berlino o The Promise acustica al pianoforte a Milano. C’è spazio per qualsiasi possibilità, anche per immortali cover rock’n’roll, vista la solidità del gruppo e considerato che da un concerto al successivo cambiano mediamente almeno dieci pezzi. Ma veniamo alla questione che ha arrovellato tutti gli animi springsteeniani dal giugno 2011. L’assenza di Clarence. A mio giudizio si fa sentire soprattutto come presenza scenica. Per il resto i cinque fiati chiamati al suo posto, con Eddie “Kingfish” Manion e il nipote Jake Clemons (davvero bravo) ai due sassofoni, si fanno onore, sopperiscono alla grande e talvolta colorano i brani di quella vena rhithm’n’blues che è un valore aggiunto, vedi il finale di Thunder Road, ascoltata a Berlino e Trieste. Questa soluzione era parsa la più indicata dall’inizio, e i concerti ne danno conferma. Big Man non c’è più, ma il Boss ha trovato il modo di commemorare prima lui e Danny, durante la presentazione del gruppo in My City of Ruins quando dice di sentirli nelle voci della gente, e poi solo Clarence, con le immagini video che scorrono sui megaschermi nell’intermezzo, commovente, di Tenth Avenue Freeze-Out. Bruce appare in forma strepitosa anche dal punto di vista vocale e addirittura, spesso, toglie la scena chitarristica a Nils e Steve. I pilastri della E Street restano Roy al piano e Garry al basso, mentre l’impeccabile Max impressiona sempre di più con l’avanzare del tempo. Insomma, tutti i membri della Leggendaria continuano ad interpretare alla perfezione il loro ruolo e Little Steven è divenuto a tutti gli effetti l’unica grande spalla del Capo, anche se fatica a star dietro alla sua furia. Superfluo dire che uno show come Milano, con 33 canzoni, entra di diritto nella leggenda rock e springsteeniana, a tutti gli effetti e senza invidiare nulla a spettacoli di dieci, venti, trenta e quarant’anni fa. 30 i pezzi a Colonia, 28 a Berlino, 29 a Trieste. Importanti le differenze fra i tipi di pubblico. Ordinato e composto, al limite del freddo, quello tedesco, stellare per coinvolgimento quello milanese. A Trieste un misto di entrambe le cose, essendo arrivati in quella bellissima città almeno 15mila fan provenienti da nazioni estere. Al netto dell’esaltazione per questa strepitosa macchina rock’n’roll che da ormai quarant’anni domina la scena mondiale, si deve però dire che l’impostazione base della scaletta avrebbe potuto essere diversa. Con qualche brano in più appartenente al cofanetto di inediti di Darkness, uscito poco più di un anno fa, il concerto avrebbe preso una direzione nuova, unica rispetto al passato. Avrebbe esaltato la sezione fiati e magari evitato la riproposizione a oltranza di brani che negli ultimi dieci anni sono sempre stati onnipresenti nelle performance di Bruce con la Band. Penso alle Sunny Day, alle The Rising, alle Dancing in the Dark o alle Hungry Heart per citarne solo quattro; se è vero che fanno impazzire il pubblico da stadio, è altrettanto vero che per chi segue il Boss da sempre sono diventate un po’ stucchevoli e avrebbero potuto essere sostituite da cose praticamente mai proposte. Ma forse ci sarà un altro tempo. Voglio sottolineare, a beneficio di tutti coloro che spesso rinunciano a un concerto negli stadi temendo l’annunciato sold out, che sono andato a tutti e quattro i concerti senza avere in mano il biglietto. Li abbiamo trovati in loco, non da bagarini ma da fan che ne avevano in più da vendere a prezzo assolutamente regolare. Questo anche in Germania, dove è stato istituito il biglietto per il pit, l’ambitissima zona sottopalco che in Italia era invece oggetto di lotteria per l’ordine di accesso e conseguente arrivo in transenna. Dico questo per testimoniare che, negli stadi, i biglietti si trovano sempre e senza particolari apprensioni, nonostante gli annunci strillati. Infine la considerazione che tutti i seguaci del profeta si trovano a fare alla fine di ogni tornata, soprattutto da quando il ragazzo del Jersey non è proprio più un ragazzo. E ora? Premesso che già si parla del giro del 2013 e che lo stesso Bruce ha sempre salutato il pubblico sottolineando un previsto ritorno (“…arrivederci Milano”) - cosa che fa enormemente piacere - è ovvio che la speranza di non dover aspettare altri tre anni prima di rivederlo c’è tutta, come quella che Dio gli conservi questa impressionante forma. Realisticamente però non si riesce a immaginare cosa si possa chiedere di più alla sua carriera rock live. Oltre questo San Siro, che ha almeno eguagliato il ricordo del 1985 in tutti coloro che c’erano in entrambe le occasioni, sarebbe inumano andare, e forse anche sbagliato. Folk, gospel, country, soul, blues, tutti questi generi sono stati ben amalgamati proprio nelle canzoni del nuovo album - e in altri brani - presentate dal vivo. E sono stati già esplorati dal Boss. Questo può essere il viatico per la prossima fase di carriera, quella da ultrasessantenne. Ovunque ci porterà, noi ci saremo. E se saranno palazzetti o teatri, tanto meglio. Con la E Street o senza. Ci saremo, perché il più grande rocker di sempre lo merita.

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