Introduzione

"Come scrittori di romanzi non siamo capiti".
Introduzione di Ugo Gugiatti a "L'uomo delle taverne", romanzo del Pinchet

venerdì 21 dicembre 2012

Raccontino per Natale, dedicato a Gianni Brera

Quando uno si sposa deve avere un trapano

Zeno Civetta se ne stava sdraiato sul divano della camera 27 all’Hotel Excelsior. Un posto di lusso. Guardò sul giornale locale e trovò un numero buono. Chiamò.
“Centro massaggi, dica”.
“Buongiorno, vorrei una ragazza all’Hotel Excelsior, stanza 27”.
“Che ragazza? Una di quelle dell’annuncio?”.
“Sì”.
“Come la preferisce?”.
“Che sia carina, pulita”.
“Mora o bionda?”.
“Non mi interessa”.
“Fra trenta minuti sarà da lei, signore”.
“Grazie mille. Arrivederci”.
“Arrivederci, signore”.
Zeno Civetta abbassò il ricevitore e andò nel bagno. Si fece la barba e si diede una sistemata ai capelli, poi rifece il nodo alla cravatta e indossò la giacca. Bevve un sorso di champagne e sintonizzò la radio sul canale della musica classica. Attese seduto sul divano; era emozionato, colmo di vergogna e sensi di colpa. Dopo quaranta minuti bussarono alla porta. Zeno Civetta si alzò dal divano e andò ad aprire.
“Buongiorno, sono Stefi”.
“Buongiorno, Stefi, entri”.
La ragazza entrò nella stanza. Aveva circa venticinque anni, alta un metro e abbastanza, capelli a modo, occhi due, naso uno, volto crema pulito, due notevoli tette di media proporzione, apparentemente dure come il marmo. Uno sguardo intelligente. Era fasciata dentro un soprabito scuro, ma appena iniziò a sbottonarsi, si poterono notare una camicetta aderente nera, aperta da sotto il seno in giù, una mini gonna grigia, calze di seta scure, scarpette con tacco discretamente alto. Non sembrava truccata, solo un po’ di rossetto sulle labbra. Si lasciava dietro una buona scia di profumo. Si tolse il soprabito posandolo sul divano e Zeno Civetta, che si aspettava di avere meno fortuna, imbarazzato, chiese:
“Ma lei è la ragazza mandata dall’agenzia?”.
“Sì, sono del Centro massaggi. Mi hai cercata tu, no?”.
“Sì, ma pensavo a qualcosa di diverso”.
“Non ti vado bene?”.
“Scherza? E’ solo che non sembra una massaggiatrice…”.
“Cosa sembro?”.
“Non sembra una massaggiatrice”.
“Spero di piacerti”.
“Lei è molto carina”.
“Grazie, anche tu sei un bell’uomo. Come ti chiami?”.
“Geppetto!”.
Lei sorrise.
“Perché non ci diamo del tu, Geppetto?”.
“D’accordo”.
Zeno Civetta era molto nervoso, non sapeva cosa fare. Per la prima volta si trovava in una situazione del genere, ma avrebbe interpretato nel miglior modo possibile la parte dell’uomo sicuro. Stefi si era seduta sul divano e lui le si sistemò accanto, mantenendo le distanze di sicurezza.
“Cosa vuoi fare Geppetto?”.
“Non saprei. Vuoi un po’ di champagne?”.
“Sì, grazie”.
Era una donna di classe, non parlava dei soldi. Metteva il cliente nella condizione di sentirsi amato. Gli faceva pensare di essere un uomo interessante e fingeva di sembrare attratta da un fascino che il cliente non sospettava nemmeno di avere. Non una semplice donna da pagare. Era una professionista. Zeno Civetta stappò, non senza difficoltà, una bottiglia nuova e riempì due coppe. Per miracolo evitò di rovesciare tutto, ma si arrangiò un tono. Porse il bicchiere alla ragazza.
“A cosa vuoi brindare, Geppetto?”.
“Alle ruote di scorta, bucate”.
“Cosa?”.
“A te”.
“Grazie”.
Brindarono. Zeno Civetta osservava discreto le curve disegnate dalla camicetta sui seni sodi di Stefi. Poi le guardò l’ombelico scoperto. Era il più bell’ombelico che avesse mai visto in vita sua. Stefi accavallò le gambe e lo guardò con dolcezza.
“Che lavoro fai?”.
“Sono un giornalista”.
“Un giornalista?”.
“Sì”.
“Che genere di giornalista?”.
“Scrivo pezzi, mi vengono bene i coccodrilli”.
“I coccodrilli?”.
“Sono gli addii alle persone morte”.
“Ah, non è triste?”.
“No, certe volte mi pare di regalare l’immortalità”.
“Addirittura?”.
“Una cosa così”.
“Una volta o l’altra proverò a leggere qualcosa di tuo”.
“Te lo sconsiglio”.
“Perché?”.
“Perderesti tempo”.
“Ma ti piace?”.
“Ha dei lati positivi. Ad esempio posso essere qui con la più bella ragazza del mondo alle quattro del pomeriggio, mentre tutta la città lavora. Ma è così solo oggi”.
Zeno Civetta cominciò a rilassarsi. Stefi lo aveva condotto in una discussione che lo tranquillizzava e gli dava modo di farsi ammirare. Comunque non voleva parlare troppo del suo lavoro. Non voleva piacerle per il suo lavoro, anche perché non ci sono poi tutti questi motivi perché un giornalista debba piacere.
“Dimmi, com’è fare il giornalista?”.
“Da 30 anni abbiamo perso Beppe Viola, da 20 Gianni Brera. Poi è arrivato Verissimo. Il giornalismo è andato a puttane. E pensare che una volta erano i giornalisti ad andarci”.
“Ora no?”.
“Capita”.
“Quanti anni hai, Geppetto?”.
“Trentaquattro”.
“E perché un giornalista, bello e giovane, chiama una come me in un albergo?”.
“Non lo so. Comunque non sono bello e poi volevo parlare”.
“Cosa c’è che non va?”.
Stefi appoggiò al tavolino il bicchiere vuoto. Zeno Civetta fece lo stesso. Poi la guardò negli occhi, gli pareva fosse l’unica persona al mondo in grado di capirlo. Era bella e intelligente e lui era felice di averla con sé.
“Non sapevo cosa fare, oggi, così ho preso questa stanza, ho guardato il giornale e ho telefonato. Non l’avevo mai fatto prima”.
“L’avevo capito. Sai, i miei soliti clienti a quest’ora avrebbero già dato il meglio”.
“Scusa...”.
“Non ti preoccupare. Sto bene”.
Stefi era una grande donna. Zeno Civetta se ne stava già innamorando.
“Perché, mentre mi racconti qualche storia, non ti sdrai sul letto? Così ti massaggio un po’ la schiena. E’ quello che diceva l’annuncio, o sbaglio?”.
“D’accordo”.
Si alzarono dal divano. Stefi si tolse le scarpe e si adagiò sul letto. Zeno Civetta era imbarazzato e si sfilò solo la giacca. Lei disse:
“Come faccio a massaggiarti se tieni la camicia?”.
Zeno Civetta si liberò della cravatta, tolse la camicia e le scarpe. Restò con una maglietta bianca e i pantaloni. Non sarebbe mai andato oltre, già così si vergognava maledettamente. Si stese sul letto a pancia in giù. Lei cominciò a passargli delicatamente le mani sulla schiena.
“Allora Geppettino, dimmi. Quante ragazze hai avuto?”.
“Poche. Dopo avermi conosciuto bene sono sempre scappate”.
“Sono proprio delle sciocchine le tue amiche”.
“L’ultima però non scappa, mi si è incollata”.
“Non pensarci adesso”.
Lui si innamorava sempre più ad ogni parola che le sentiva sussurrare. Stefi aveva una voce dolce e rassicurante. In poco tempo la amò. Lei continuava a parlargli con passione.
“Quando hai cominciato a fare il tuo mestiere?”.
“A vent’anni collaboravo dal mio paese col quotidiano Il Giorno. Col tempo sono entrato in redazione, poi l’esame di Stato e alla fine siamo qui”.
“Adesso sei famoso?”.
“No, i giornalisti famosi vanno in Tv”.
“Perché non ci vai?”.
“Non mi ci chiamano”.
“Di dove sei, Geppettino?”.
“Vengo da un paese di montagna. Si chiama Villa di Tirano, provincia di Sondrio”.
“Anch’io sono una ragazza di montagna sai, il mio paese è in Ungheria”.
“Però parli benissimo l’italiano”.
“Me la cavo”.
“La montagna è fantastica”.
“Certo, nemmeno da paragonare col mare”.
“I paesaggi di montagna sono tutta un’altra cosa”.
“Tutta un’altra cosa. Da piccola andavo a caccia con mio padre. A volte mi faceva anche sparare”.
“Anche i miei sono cacciatori, da generazioni. Cacciatori diversi però; saper cacciare è un’arte, e loro sono degli artisti”.
“Davvero?”.
“Sì”.
“Però quando mio padre portava a casa un cervo… perché da noi ce ne sono di grossi... davvero grossi, Geppettino. Beh, sai cosa c’era? C’era che alla fine mi dispiaceva”.
“Ti capisco”.
“La caccia è bella ma è nostalgica. Va a finire che ti dispiace”.
“Ti dispiace sempre, alla fine”.
“E pensare che non l’avevo mai detto a nessuno. Stavo lì, da piccola, e non dicevo a nessuno che mi dispiaceva un po’ per il cervo. Pensavo che dicendolo mi avrebbero considerata una mezza calzetta”.
“Beh, oggi come oggi, bisognerebbe cacciare i cacciatori”.
“Sai Geppettino, io andavo anche a pesca”.
“Davvero?”.
“Sì, prendevo certe trote!”.
“Io non ho mai pescato. Mio fratello pescava spesso”.
“E’ rimasto al paese?”.
“E’ morto”.
“Mi dispiace. Non volevo”.
“Non fa niente, Stefi. Non fa niente. Si muore sempre dopo aver vissuto un po’”.
“Certe notti penso che vorrei tornare al paese e aprire una libreria. Il cielo della montagna ungherese, di notte, è grande. Sai, tutte le stelle e quel vento freddo. Non abbiamo grandi cime, ma il freddo c’è. Eccome”.
“Tornaci”.
“Forse un giorno tornerò, mi sposerò e vivrò per sempre lì. La mia libreria sarà la più bella del paese”.
“Leggi molto?”.
“Sì, leggo vecchi libri gialli inglesi. Solo che mi capita una cosa strana, alla fine divento amica dei personaggi e non vorrei mai lasciarli andare”.
“Capita così. E’ incredibile. Pochi scrittori ci riescono”.
“La mia libreria venderà solo i libri di quegli scrittori”.
Il tempo passava e Zeno Civetta si stava rilassando grazie alle delicate mani di Stefi che gli stuzzicavano la schiena. Quando capì che era esattamente tutto quello che aveva sempre desiderato le disse:
“Perché una ragazza di paese come te fa questo lavoro?”.
Stefi non rispose. Continuò a massaggiarlo, seduta sul letto al suo fianco.
“Stefi, stai recitando?”.
“Io ci so fare con gli uomini Geppettino, so quello che vogliono da me”.
“Stefi, ti supplico, continua a recitare”.
“Beh, anche tu stai recitando con me”.
“Cosa dici?”.
“Io faccio il mio lavoro, tu invece non hai avuto nemmeno il coraggio di dirmi il tuo nome”.
“Scusa, è vero”.
“Adesso, Geppettino, pretendi di aver trovato la felicità in questa stanza. Ma quand’è che racimolerai le palle di uscire?”.
“A giudicare dal tuo tono, temo presto, tesoro”.
“Quando ti sposi, Geppettino?”.
“Domani”.
“Perché?”.
“Sono innamorato, dicono”.
Zeno era triste e depresso. Stefi si era sdraiata al suo fianco e gli accarezzava la pancia.
“Non devi preoccuparti, Geppettino”.
“Tu dici?”.
“Non pensare adesso”.
Zeno Civetta guardò la stanza, era lì con lei da quasi due ore, pensò di non volerne più uscire. Finirono la bottiglia di champagne sul letto.
“Non usciamo di qui, Stefi”.
“Non dire così”.
“Non voglio tornare”.
“Dovremo, prima o poi”.
“Mi costerà di più tenerti tutta la notte?”.
“Non parliamo di questo ora”.
“Andiamo da te e apriamo quella libreria. Noi due. Rifacciamo tutto daccapo. Io ti ho capita sai, sei diversa dalle altre, e forse mi ami già un po’”.
Era indubbio che lo champagne avesse già fatto effetto su Zeno Civetta.

Dopo un’ora Zeno Civetta ordinò una cena in camera. Stefi non lo abbandonava. Mangiarono davanti alla grande vetrata che dava sulla strada. Il sole tramontava. Zeno Civetta la guardava, lì, davanti a lui. Non sapeva se vergognarsi oppure no. Stefi disse:
“Com’è lei?”.
“E’ buona con me”.
“Cos’ha che non va?”.
“Vuole sempre andare in vacanza al mare”.
“Tutto qui?”.
“Ha troppi amici, la salutano tutti, non puoi entrare in un bar per bere un cinzanino che sono tutti lì a salutarla”.
“E’ meglio che tu mi dica cosa non va in te”.
“Quando uno si sposa deve avere un trapano”.
“Un trapano?”.
“Sì, per fare tutti quei lavoretti in casa. Avvitare, svitare…”.
“E tu ce l’hai il trapano, Geppettino?”.
“Io non sono capace di fare i lavoretti di casa”.
“Ma come, Geppettino? Il tuo nome suggerirebbe il contrario…”.
Risata.

Restarono nella stanza 27 per tutta la notte. Guardarono un vecchio film noir francese, “Ascensore per il patibolo”, e bevvero vino rosso. Risero molto. Solo quando alla fine si abbandonarono al giaciglio Zeno Civetta tolse i pantaloni. Stefi si sfilò le calze e la camicia. Reggiseno e mutandine neri su pelle di seta.

Al mattino Zeno Civetta fu svegliato all’ora concordata dal suono del telefono. Stefi era già vestita, gli diede un bacio e gli disse:
“Sarà meglio che mi dici il tuo nome, se vuoi che ti legga”.
“Zeno Civetta”.
“Era meglio Geppetto!”.
“Decisamente”.
“Va beh, regalo di nozze; diciamo che mi pagherai la nottata con un articolo sulla mia libreria. Ora devo andare”.
“Aspetta!”.
Zeno prese un biglietto da visita dal suo portafoglio e lo diede a Stefi.
“Grazie cucciolo. Leggerò, stai sicuro”.
“Tutte le volte che scriverò un coccodrillo penserò a te, che lo stai leggendo, in qualche caffetteria d’alta classe”.
“Un bel modo per addolcire il ricordo del cadavere”.
“Cosa devo fare adesso?”.
“Qui sotto c’è una ferramenta. Compra il trapano, Geppettino”.
“Sì”.
“Ciao, Zeno”.
“Ciao, amore mio”.
Stefi uscì dalla stanza 27 dell’Hotel Excelsior. Lui poté ascoltare i suoi passi lungo il corridoio fino all’ascensore. Ogni colpo dei tacchi sul pavimento, una pugnalata allo stomaco. Aveva voglia di uscire e fermarla, ma riuscì a trattenersi. La stanza 27 non pareva nemmeno più tanto bella adesso; puzzava di malinconia e tristezza e solitudine e rimorsi e il rumore del traffico cittadino penetrava dai vetri delle finestre. Zeno Civetta prese l’abito gessato grigio dall’armadio aperto dove l’aveva riposto il giorno prima. Lo stese sul letto, fece una doccia e lo indossò. Prima di uscire dalla stanza sentì il profumo di Stefi appoggiando il naso sul cuscino dove la ragazza aveva dormito.

Alle 11 Zeno Civetta fu in chiesa con la sposa al suo fianco. Era nervoso e triste e agitato e depresso e si sentiva colpevole.
Alle 11.46 il prete gli fece la domanda di rito. Zeno Civetta rispose. Poi il prete si rivolse alla sposa, bella, dolce, tenera e con ogni probabilità innamorata, al suo fianco. In quel momento Zeno Civetta si frugò nella tasca sinistra della giacca e ci trovò un biglietto. Lo prese e lo guardò davanti al prete che continuava a snocciolare la sua fastidiosa litania. Diceva:

335.4536887
Per un'altra notte in cima alle montagne
Stefi

Zeno Civetta rimise in tasca il biglietto e, con una gioia del tutto nuova, si preparò a baciare ardentemente la sposa.

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