Introduzione

"Come scrittori di romanzi non siamo capiti".
Introduzione di Ugo Gugiatti a "L'uomo delle taverne", romanzo del Pinchet

venerdì 16 marzo 2012

Bruce Springsteen - Wrecking Ball - Anno 2012

“Se avessi una pistola, scoverei quei bastardi e li farei fuori”. Bruce Springsteen è tornato. Da più di vent’anni sento, e leggo, e scrivo questa frase ad ogni album nuovo del celeberrimo rocker del New Jersey, ma stavolta questa frase vuol dire qualcosa in più. Perché “Wrecking Ball” è un album spettacolare, che unisce diverse influenze musicali - e proprio per questo decine di musicisti - in un unico grande e nuovo sound per Bruce, e che vanta delle liriche di una rabbia, una potenza e una forza espressiva che non si sentivano da tempo. Certamente il suo disco migliore degli anni 2000, forse addirittura fra i primi in assoluto, ma resta il fatto che è difficilmente paragonabile a tutti gli altri proprio perché profondamente unico. Non sono stato un detrattore assoluto del periodo di produzione di Brendan O’Brian - anche se i suoi arrangiamenti hanno di certo imprigionato l’ottimo rock contenuto in “The Rising” o “Magic”, per non parlare dell’appena sufficiente “Working on a Dream” - ma stavolta si cambia registro e si torna a sentire una voce rocciosa su suoni nitidi. Il singolo, “We Take Care of Our Own”, a fine gennaio, mi aveva lasciato l’amaro in bocca. Anzi mi aveva proprio fatto incazzare. Sembrava appunto di riprendere il filone rock più archi e coretti tipico del precedente produttore, la canzone non aggiungeva nulla alla già enorme storia di Bruce, non era coerente con la sua non più tenera età e pareva un nuovo successo di facile presa radiofonica. Solo il testo, volgendo lo sguardo alla povertà americana 2012, lasciava intravedere un po’ di luce. Nel complesso comunque Bruce non poteva permettersi di darci così poco dopo tre anni di silenzio e una perdita enorme come quella di Clarence Clemons. Così non mi sono fatto abbattere e l’ascolto attento di tutto l’album mi ha regalato quello che speravo. “Easy Money”, seconda traccia, è folk irlandese allo stato puro, con l’aggiunta dei cori a rendere il clima più festaiolo su un testo che è un calcio nel culo alla legge. L’atto criminale si sta per compiere e una Smith & Wesson calibro 38 è pronta a sparare. Sembra di essere tornati a “Nebraska”. “Shackled and Drawn” è su questo stesso filone, potente e ruvida, folk che si fonde col gospel, con la batteria di Matt Chamberlain che picchia talmente forte da sembrare una mazza contro la cassaforte della banca. Rende perfettamente l’immagine di rancore e disperazione dell’uomo comune e onesto di fronte alla crisi economica mondiale causata dal potere. “Jack of All Trades” è il primo colpo al cuore dell’album, una ballata per piano, tromba da antologia e assolo finale di Tom Morello che certamente diventerà un classico springsteeniano. “Death to My Hometown” è folk rock celtico, di una forza epica, una marcia che dal vivo farà saltare tutti. A pestare c’è Chamberlain, che giustifica ampiamente la chiamata del Boss, mentre il ritmo è incalzante nonostante la canzone racconti di desolazione, con “gli avvoltoi che si sono presi le nostre ossa”. Ed eccoci ad un altro snodo cruciale, “This Depression”, che anche grazie al secondo intervento chitarristico dell’ottimo Morello, trasmette esattamente le difficoltà e le paure di questo buio periodo, e dimostra ancora una volta come il Boss sappia leggere la realtà e tramutarla in versi. La title track la conoscevamo perché proposta alla fine dell’ultimo tour, è la metafora ideale che rappresenta tutto un album di dolore ma anche di voglia di riscatto. Dopo un attacco per chitarra e voce vira in un’esplosione di fiati, abbracciando il soul. “You’ve Got It” ricorda vagamente il periodo “Tunnel of Love”, la ruvida voce del Capo si riprende la scena e ci sono importanti innesti di pedal steel guitar. Su “Rocky Ground” occorre fare un discorso a parte. Si tratta di un pezzo gospel che sarebbe risultato il contraltare superbo di “My City of Ruins”, dieci anni dopo. Purtroppo - ma ammetto che per chi ha meno paraocchi del sottoscritto è una fortuna - non mancano i pochi secondi rap proposti dalla intensa voce della cantante Michelle Moore. Al netto di questo è una grande canzone, con evidenti riferimenti biblici nei versi, ma per i puristi della biografia sonora springsteeniana si tratta di un bell’azzardo. Il testo è da brividi: “Dove una volta avevi fede, adesso c’è solo dubbio”. Torniamo a casa con la arcinota “Land of Hope and Dreams”, versione studio, inserita per rendere omaggio a Clarence, che qui prestava uno dei suoi ultimi assoli. Rappresenta uno dei pochi barlumi di speranza dell’album. Arriviamo ad un altro tassello fondamentale col country puro di “We’re Alive”, che emerge dai solchi di un vinile e non a caso contiene un sentito omaggio della sezione di fiati alla “Ring of Fire” di Cash. Struggente, questa “Spoon River” di Bruce, parte acustica e poi esplode corale, se il suono è a metà strada fra “Tomorrow Never Knows” e “My Best Was Never Good Enough”, nelle parole ricorda l’intero album di De Andrè “Non al denaro, non all’amore né al cielo”. Quindi ecco i morti descriversi sotto terra. Sono i nostri cari o dei semplici sconosciuti, che ci dicono di andare avanti, perché loro sono vivi, sono con noi, pronti a combattere spalla a spalla, cuore a cuore. Immensa. Nella versione deluxe dell’album (la moda di fare queste doppie versioni è una cagata pazzesca), c’è anche la drammatica, introspettiva, tetra “Swallowed Up - In the Belly of the Whale”, che ci porta in un caposselliano ventre di balena, fra Waits e Cohen. Da sentire e assimilare con calma perché potrebbe essere il viatico del Bruce sessantenne, quello che ci riserva il futuro. Il disco si chiude sul sound gioioso in salsa Pogues di “American Land”, figlia del progetto Seeger Sessions che sicuramente ha influenzato tutto il lavoro. Una versione studio che è di nuovo folk rock puro e farebbe ballare anche il cadavere di un bancario pigro, come hanno dimostrato le centinaia di concerti degli ultimi 6 anni. Non c’è nulla da dire, Bruce è tornato. A 62 anni ci ha detto che è ancora lì, a dire la nostra, a interpretare il canarino nella miniera. A rappresentare il grigiore dei tempi e ad aiutarci a combatterlo. E’ integro, lucido, ricettivo e vivo più che mai. Cosa si può chiedere di più a una leggenda rock con 40 anni di carriera sulle spalle? Non c’è nella sua intera discografia un album simile a questo, è riuscito a fondere quasi tutte le sue influenze - rock, blues, gospel, country, soul, folk - e a ricavarne un disco che resisterà al tempo. Il progetto vede una partecipazione ridotta all’osso dei membri della E Street Band, probabilmente a testimonianza del fatto che il concetto iniziale non andasse in quella direzione. Forse la dilatazione dei tempi di realizzazione e la virata su un ritorno, nel prossimo tour, con i vecchi compagni, sono avvenute a seguito dell’improvvisa dipartita del Grande Uomo. Altrimenti ci sarebbe stato un turno di pausa per loro, e magari - finalmente - sarebbero stati aboliti gli stadi, luoghi da inutili raduni di massa dove il Boss è spesso portato a gigioneggiare. Oggi come oggi, i palazzetti e i teatri andrebbero benissimo, gli consentirebbero di improvvisare cose più particolari ed eliminare quelle più facili. Si tratterebbe di un ambiente in linea con l’anagrafe e con l’approdo soul che la sezione fiati porterà a questi concerti; sarebbe meglio sentire tutto il nuovo album e buona parte di “The Promise”, piuttosto che l’ennesima “Hungry Heart”. Comunque, se è questo il Bruce che ci riserva la fase matura, E Street o no, Dio ce lo conservi. Note a margine: nel retrocopertina e nel libretto ci sono due foto già uscite nel book del “Live in Hide Park”. Difficile pensare che non ce ne fossero di inedite… Infine, mi piacerebbe sapere se il nuovo produttore, Ron Aniello, è servito solamente ad aggiungere la batteria elettronica che fa goffa figura - fortunatamente sotto traccia - in parte di “Jack of All Trades” o in alcune fasi di “Land of Hope and Dreams”, o a suggerire il sottofondo sintetico di “Rocky Ground”. Perché se così fosse, allora sarebbe meglio per Bruce prodursi da solo senza andare più a cercare altri guru del mixer. Inezie, che però offuscano in minima parte la bellezza di un disco enorme.

1 commento:

  1. Bella recensione,molto sentita! Peccato che per me "Wrecking ball" sia l'album peggiore del nostro:freddo,asettico,senza magia,molto costruito...e poi il rap...mai avrei pensato di sentirlo in un album del Boss dopo 27 anni di ascolto (ora ne ho 42). Ho rivalutato "Human touch".

    Fabio

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